Dopo anni spesi – lui però preferiva dire persi – in una delle più prestigiose università del paese come ricercatore di matematica pura, Torquato aveva trovato la sua vera dimensione nel fare il guardiano del faro di capo Tetris; in pratica, l’eremita. Non che non avesse rapporti con il mondo, intendiamoci, ma erano tutti mediati dall’elettronica. Mail, videochiamate, chat quante ne voleva. Ma contatti personali zero. E a lui stava benissimo così.

Oltretutto, il faro, pur essendo a poche centinaia di metri dalla terraferma, era su un’isola raggiungibile solo in barca e con mare calmo, il che avveniva di rado. Persino il cibo che ordinava gli veniva recapitato tramite droni.

 

E poi, il faro Tetris era particolare. E non solo per il nome, che ricordava quello di uno dei primi giochi di successo che giravano sui primi personal computer. Il punto dove era posizionato, al largo di Capo Tessera, infatti, era strategico: un stretto braccio di mare che separava il golfo orientale da quello occidentale, e le nazioni nemiche della Triplice Repubblica e della Monarchia dei Pentiux. Dichiarato terra neutrale, il faro era stato costruito su quell’isola altrimenti deserta per verificare che non ci fossero sconfinamenti via mare tra i due contendenti, e che le navi di altre nazioni proseguissero tranquille, senza rischi di pirateria da parte delle forze irregolari delle due nazioni in lotta.

Il faro era una torre alta circa dodici metri e a base quadrata di tre metri di lato, e costruito sopra uno sperone di roccia alto quasi settanta che si stagliava, solitario come un Polifemo di granito, .al centro dell’isoletta. Dopo aver preso l’ascensore che portava dalla costa in cima allo sperone, ecco l’ingresso del faro Tetris. All’interno, si sviluppava su quattro piani. L’ingresso, una camera di tre metri di altezza, serviva da magazzino. Una scala a chiocciola (unico accesso agli altri piani) portava al secondo, che aveva la stanza di controllo del faro, con tutti i suoi strumenti. La particolarità stava al terzo piano, che si estendeva, in tutte e quattro le direzioni, con quattro stanze cubiche (anche esse di tre metri), che erano il suo appartamento. Bagno, cucina, stanza da letto e studio. la scala a chiocciola, continuando la sua salita, arrivava fino all’ultimo piano, il faro vero e proprio. La forma ricordava un pezzo del Tetris, proprio il videogioco famoso negli anni ’80. Da qui il nome che Torquato gli aveva dato (quello ufficiale era pomposo e inutile “Faro neutrale dell’isola di Capo Tessera”).

 

Era una tranquilla vita da misantropo, che Torquato apprezzava perché lo depurava della presenza dell’umanità, che nel corso degli anni aveva imparato a disprezzare.

Una notte, però, Torquato si svegliò di soprassalto, sentendosi all’improvviso solo. Sensazione strana e nuova per lui, visto che aveva eletto proprio la solitudine a sua unica compagna di vita. Non riusciva a capirne il motivo, aveva solo una vaga sensazione di disagio, e sentiva, per la prima volta dopo anni, la necessità di vedere altri esseri umani.

Guardò l’orologio. Le tre. Immagazzinò nella sua mente da desto l’incubo che aveva appena fatto: mentre era steso nel letto, una sfera comparve dal nulla in mezzo alla stanza, all’inizio piccola, poi sempre più grande, fino ad invadere la stanza e lui stesso, che fu attraversato da quello strano oggetto. Sentì un dolore lancinante, come se quella sfera stesse invadendo tutto l’interno del corpo – ossa, muscoli, sangue, organi – senza che lui potesse fare nulla per evitarlo. Poi, dopo qualche secondo, la sfera cominciò a rimpicciolirsi sempre di più fino a scomparire nel nulla da dove era venuta, lasciandolo indolenzito ma ancora vivo. Si, decisamente un brutto sogno.

“Deve essere stata la peperonata”, pensò Torquato. E proprio in quel momento capì il perché di quella sensazione di isolamento.

Era il mare. Non si sentiva più il rumore mare. Quel ruggito – a volte debole, a volte rabbioso, che accompagnava i suoi giorni e le sue notti in maniera incessante non c’era più. Abituato come era a quel continuo rumore, la sua assenza lo aveva reso consapevole di cosa volesse dire il silenzio più totale. Si girò verso la finestra, dalla quale non filtrava nessuna luce, neanche quella della luna.

Si alzò dal letto, e cercando di accendere la luce si accorse che l’elettricità non c’era.

Imprecando, azionò la torcia a pile che teneva sempre sul comodino, e si diresse verso il disimpegno centrale che divideva i quattro locali. Buttò un occhio in alto, dove la scala a chiocciola portava verso il faro. Spento anche esso.

Questo era grave: si scapicollò al piano di sotto, verso la sala comandi, per attivare il generatore di emergenza.

Con la sola luce della torcia si muoveva con difficoltà, ma riuscì a attivare la procedura che dava corrente al faro tramite la batteria, e quando finalmente lo vide acceso si rilassò, sedendosi pesantemente sulla poltrona davanti la console di comando. Sospirò.

 

Ascoltò l’ambiente con attenzione: un silenzio di tomba. E al silenzio si associava un buio completo all’esterno, visto che dalle serrande non filtrava luce alcuna. Anche questo lo stranì: era andato a letto con il cielo sereno e la luna piena, possibile che in poche ore si fosse coperto tutto il cielo? Andò verso la finestra alla sua destra per sollevare la tapparella. E quel che vide lo lasciò esterrefatto. La finestra non dava, come ci si sarebbe potuti aspettare, sul lato ovest dell’isola, ma su un’altra tapparella, identica a quella che aveva appena sollevato, chiusa.

Per la prima volta in vita sua, Torquato – che si riteneva tanto razionale da poter sempre affrontare qualsiasi evento solo analizzando la realtà con la sua mente – non seppe cosa pensare. Poi, notò che la serranda chiusa che aveva davanti aveva una stecca di un colore diverso, lievemente più scuro. Ricordò che era la stessa caratteristica di quella della sua stanza da letto, ed un orribile dubbio si insinuò nei suoi pensieri. In preda al panico, salì di corsa la scala a chiocciola, andò nella camera ed alzò la tapparella. Ed eccola lì, la stanza di controllo del faro Tetris, quella dalla quale era appena uscito.

“Questa è bella” si disse, cercando di rimanere calmo e di non cedere al terrore. Provò con cautela a scavalcare la finestra, ed in effetti, dopo una lieve sensazione di vertigine, si ritrovò proprio dove stava cinque minuti prima. La stanza era proprio quella: la poltrona, quella dove si era seduto solo poco tempo prima, aveva le deformazioni dell’uso che ne aveva fatto Torquato negli anni.

 

Si forzò a pensare razionalmente per qualche minuto, cercando di capire cosa era successo e soprattutto evitando di farsi prendere dal panico e dalla disperazione che attaccavano feroci la sua quiete. All’improvviso, gli tornarono in mente i suoi vecchi studi universitari. Un’ipotesi gli si era affacciata alla mente. Ma possibile?

Corse su per le scale, imboccò la stanza che era il suo studio personale. Alzò la tapparella.

La luce del faro inondò il vano cubico. Era lì, a meno di due metri da lui. Ed era proprio il faro che aveva acceso poco prima. Lo stesso vano, che avrebbe dovuto trovarsi al piano di sopra e sei metri più ad ovest. Ritornò nel disimpegno e guardò in alto. Era li. E contemporaneamente attaccato alla finestra del suo studio.

Tornò nello studio, scavalcò la finestra, provando sempre quello strano senso di vertigine, e si ritrovò catapultato nella stanza del faro, poi scese le scale e ritornò nello studio. Un giro che si poteva spiegare in un’unica maniera, per quanto improbabile.

Certo ormai della sua congettura di poco prima, andò verso lo scaffale dove conservava ancora i vecchi testi di matematica.

“Geometria pluridimensionale”, un pesante volume che aveva usato per il suo dottorato di ricerca, campeggiava trionfante, con la sua copertina rigida color oro scintillante alla luce del faro. Lo aprì a pagina 444.

“Un ipercubo (o tesseratto) è un cubo a quattro dimensioni, esattamente come il cubo è un quadrato in tre dimensioni. Il parallelismo non termina qui: il cubo ha 2×3, ossia sei, quadrati, l’ipercubo ha 2×4, cioè otto, cubi. Lo sviluppo del cubo in due dimensioni è una croce latina, quello dell’ipercubo in tre dimensioni è sempre una croce latina ma tridimensionale, con le quattro braccia protese in tutte le direzioni.”

Il disegno sottostante spiegava tutto

Torquato sussultò: La figura di destra era esattamente la rappresentazione del faro Tetris. La sua congettura iniziale era confermata. Continuò a leggere:

“la proiezione centrale di un cubo in due dimensioni vede un quadrato grande con dentro uno più piccolo, e gli altri quattro ai lati, deformati dalla prospettiva. Allo stesso modo, la proiezione centrale di un ipercubo in tre dimensioni vede un cubo grande, con dentro uno più piccolo, e gli altri sei cubi deformati dalla prospettiva”. Anche qui, c’era un disegno:

A Torquato, adesso, era chiaro cosa fosse successo: Tetris si era richiuso sulla quarta dimensione spaziale. Era diventato un ipercubo in quattro dimensioni, e non solo il suo sviluppo nelle tre dimensioni abituali. E lui ci era rimasto rinchiuso dentro.

 

Aiutato dalla luce del faro che illuminava lo studio, si diresse verso la cucina, aprì il frigo e prese una birra: aveva bisogno di riflettere e di non cedere al panico. Ripensò a ciò che credeva di aver sognato: quella sfera non era un incubo, ma reale: era l’intersezione del faro Tetris con un’ipersfera, una sfera quadridimensionale che, attraversando il suo spazio, appariva come una sfera crescente e decrescente. Del resto, se una sfera a tre dimensioni attraversa un piano, cosa si vede su un piano? Un punto che diventa un cerchio che ritorna ad essere un punto per poi scomparire. Tutto geometricamente molto ovvio. Ma tutto questo non lo aiutava comunque ad uscire da quel labirinto dimensionale!

Si, perché adesso l’urgenza era quella di uscire dal faro, all’aperto, ed era evidente che non era facile. Non era un facile per nulla, pensò, mentre finiva la birra.

Si diresse verso il magazzino, scendendo le scale e riaccendendo la torcia. All’interno di Tetris le tre dimensioni spaziali, almeno, erano preservate. Il problema era arrivare all’esterno, adesso.

Se i suoi calcoli erano giusti, sotto i suoi piedi avrebbe dovuto trovare la parte alta del faro, il cubo che si era ripiegato attraverso la quarta dimensione su quello dell’ingresso. E così era, in effetti. Il magazzino era illuminato, da sotto, dal faro che vedeva, per la prima volta in vita sua, dall’alto. Il problema era capire dove si sarebbero aperte sia la porta, sia le altre due finestre del locale. Secondo le sue proiezioni geometriche mentali, dovevano dare tutte e tre verso l’esterno. Già, ma quale?

 

Se Tetris fosse stato ancora poggiato sul caro, vecchio universo tridimensionale, di cui cominciava a sentire una struggente nostalgia, almeno una delle tre uscite doveva dare sul mondo che lui conosceva. Si avvicino cautamente alla porta: aveva deciso di provare prima quella. La aprì con prudenza, piano, quasi fosse pesantissima.

Buio. Aprì un altro po’, ed una stella cominciò a fare capolino in alto. Speranzoso, la spalancò e quasi non cadde, nel panico, in avanti, verso un intero universo.

Vide stelle, galassie, pianeti, satelliti e buchi neri. Un intero cielo notturno che si estendeva tutto intorno a lui ed alla porta. Una vertigine forte lo colse, stava quasi per cadere… già, dove? Giù? Su? Gli sembrava di essere un astronauta in una passeggiata spaziale, ma senza tuta.

Chiuse in fretta la porta, ritrovandosi, con il fiatone, dentro il confortevole magazzino che era l’ingresso. Persino la stranezza del faro acceso sotto i suoi piedi gli dava una sensazione di ristoro, rispetto a quell’”horror vacui” provato all’apertura della porta.

 

Si diede subito una spiegazione razionale, per continuare a pensare razionalmente senza cadere preda della disperazione: se un cubo incontra due piani paralleli, l’intersezione con ognuno di essi è un quadrato. Parte dell’ipercubo che era diventato il faro Tetris aveva quindi incrociato uno spazio parallelo al suo. Uno spazio parallelo, si ripeté, un universo alternativo, quindi. Fosse sopravvissuto avrebbe avuto di che scrivere, a quelle riviste che gli avevano sempre rifiutato gli articoli! Pensò, dimenticandosi per un attimo dell’assurda situazione in cui si trovava. Ma fu un attimo. La necessità di uscire da quel labirinto a quattro dimensioni era sempre più urgente, era anzi l’unica cosa che ormai riempiva la mente di Torquato. Sollevò, con ancora più cautela, la finestra di destra.

Nulla

La sollevò un altro poco. Ancora nulla.

Ancora un poco, stavolta più rapidamente. Nulla. Fino ad aprirla completamente. Nulla.

Non il vuoto, non lo spazio, non il tempo. Neanche un colore, neanche il nero, neanche il bianco. Si può descrivere il Nulla? Torquato non poteva, e si rendeva conto che ciò che percepiva non aveva alcuna corrispondenza con qualsiasi cosa il suo cervello potesse concepire. Semplicemente il Nulla, quello con la enne maiuscola.

Era la quarta dimensione spaziale pura, quella. La nausea lo sopraffece, e dovette girarsi indietro e vomitare. Con gli occhi socchiusi, trovò la forza per abbassare quella tapparella che dava su un qualcosa di non concepibile da mente umana. Del resto, come potrebbero capire la terza dimensione degli esseri bidimensionali confinati su un piano?

 

Rimaneva la finestra di sinistra. Era l’ultima sua speranza. La aprì con violenza, stavolta: pensò, se deve essere la fine, che almeno sia spettacolare. Sembrava euforico, ma era colmo di angoscia.

Vide in lontananza la terraferma, capo Tessera, e dei fuochi d’artificio, assieme ad urla ed esclamazioni di gioia. La connessione con il suo mondo che cercava! Scavalcò la finestra d’istinto, e si ritrovò sull’isola di Tetris, in cima allo sperone. Si girò indietro, e di tutto il faro non era rimasto che un cubo. Il resto si era ripiegato sulla quarta dimensione, probabilmente perso per sempre. Ma adesso era salvo, e di aver perso tutta la sua vita, raccolta nei locali di quel faro, non gli importava più. Doveva comunicare a tutti cosa era successo! Doveva dire che era possibile connettersi con la quarta dimensione! Adesso che era salvo cominciò a provare un’euforia come mai prima in vita sua. Fece dei frenetici segni con la torcia che si era portato con sé, e poco dopo intravide una barca che, nella prima luce dell’alba, si staccava dal molo per venirlo a prendere. Era felice come mai lo era stato prima di vedere altre persone. Scese dall’ascensore in preda a una felicità mai provata prima.

 

Due vecchi pescatori lo accolsero nella barca, che ormeggiò sulla spiaggia dell’isola. Li abbracciò come se fossero vecchi amici. Alla fine, più che comunicare la scoperta della quarta dimensione spaziale, aveva necessità di mostrare quella dimensione emotiva che finalmente era uscita, e che prima era nascosta in chissà quale altro universo.