Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, di Rutger Bregman – Feltrinelli – 2020 – €22,00


l libro è stato analizzato e discusso in un interessantissimo laboratorio organizzato dalla Libreria Nuova Europa I Granai.

Si legge benissimo, e questo è un grande merito. Riesce a parlare con discreta facilità di argomenti complessi, e la “tecnica” di strutturarlo quasi fosse un discorso che l’autore fa al lettore lo rende molto scorrevole. Hai voglia di continuare. Questa, che è la sua indubbia forza, è anche una debolezza: infatti molte parti andrebbero meditate prima di continuare. Ma questo viene lasciato alla “saggezza” del lettore.

L’autore ha tutte le intenzioni di voler divulgare una tesi (l’uomo buono, contrariamente a quella che è la “vulgata” corrente). Tale idea, non nuova (cita Rousseau, che diceva pressappoco le stesse cose due secoli e mezzo fa), se si legge solo questo libro, rischia di essere “totalizzante” proprio perché, essendo un libro “a tesi”, è “di parte”. Non c’è nulla di male in questo, ma va tenuta presente l’altra campana. Personalmente, ho ripreso, dopo averli letti, i libri di Diamond (”Collasso”, ma anche “Armi, Acciaio e Malattie”), Dawkins (“Il gene egoista”) e Harari (“Da animali a Dei”). Confrontandoli con ciò che dice l’autore, molte parti ne escono rafforzate, qualcuna indebolita. Ma, più in generale, è Bregman che non si mostra a proprio agio con argomenti non di sua stretta competenza. Il concetto di “proprietà privata” è molto più complesso di ciò che afferma lui – che in questa prime pagine sembra quasi un paladino della decrescita felice. “Egoista”, poi, è il gene nel libro di Dawkins, e non l’uomo. Egoista poi in senso scientifico; ossia che la priorità di replica è ciò che rende qualcosa perdurante nel tempo: da questo punto di vista gli esseri monocellulari, che esistono da tre miliardi di anni, sono le creature più egoiste che esistano sulla terra.

Il suo merito, comunque, è di andare a prendere esempi che ci fanno riflettere. L’esperimento delle volpi argentate (citato anche in qualcuno di quei libri) ci deve far riflettere attentamente sul concetto di “domesticazione”. L’”autodomesticazione”, che lui sembra propugnare, per Harari è invece la domesticazione dell’uomo da parte delle piante coltivate e degli animali allevati. Però mette il problema alla ribalta.

Insomma una mente brillante ma per nulla rigorosa presenta nel libro idee interessanti ma declinate (non potrebbe essere altrimenti, visto il semplicismo usato) male, tanto da essere – certe volte – controproducente.

Parlo di “semplicismo” e non di “semplicità” perché l’abilità di “narrare” ciò che vuole Bregman la ha: è simpatica la maniera in cui si rivolge al lettore, e non è per nulla pesante.

Ma tratta determinate cose senza averci fatto prima il “minimo sindacale” di ricerca. Un esempio: la sua dissertazione sulla “didattica del fanciullo” che presenta come rivoluzionaria non citando mai, neanche per sbaglio, Maria Montessori (tanto da far supporre che lui magari neanche la conosce). Cioè, spaccia per novità cose che già una – troppo sottovalutata, e non solo perchè donna – scienziata “vera” aveva dichiarato più di cento anni fa


È evidente come, sin dal titolo, la traduzione sia determinante: “Humankind: a Hopeful history”, il titolo in inglese dell’opera, è molto più realistico (anche se meno spettacolare” della “Nuova storia (non cinica) dell’umanità”. Bregman non parla mai, infatti, di cinismo. Ma più in generale, il tono dato al libro è quello di una continua velata polemica che non sono sicuro sia nelle intenzioni dell’autore. Non solo: il fatto che gli olandesi siano chiamati, nel libro, “nederlandesi”, mi fa dubitare dell’efficacia della traduzione da quella lingua: sembra quasi una traslitterazione, più che un voler cogliere lo spirito del libro. Pensate a come il concetto di “buono” e “cattivo” venga declinato nelle diverse lingue (e specialmente in quelle, come l’inglese e il fiammingo, di derivazione sassone). O parole come “fallimento”, che da noi è molto più definitiva (“failure” è qualcosa che è andato male una volta, per noi è per sempre. Per loro la parola “definitiva” è “loser”, perdente, e questo da già l’idea che il gioco “play” sia molto più importante nei loro schemi mentali che non nei nostri, più figli della “severità” della storia Romana)

Sull’isola di Pasqua, Bregman mi dispiace ma prende una topica: la sua ansia da “uomo bianco cattivo vs. buon selvaggio” tralascia alcune cose fondamentali di quella storia, e ne minimizza altre (una a caso: mancanza di alberi= più terra per l’agricoltura: secondo me è una fesseria sesquipedale: c’è stato uno stupro così feroce dell’ambiente, e il buon Rutger non può cavarsela così)

Sulle altre storie: sono interessanti, e probabilmente ha ragione nello smontare determinate “leggende sociologiche”. Ma poi torna a esagerare, parlando di “sbaglio” dell’illuminismo. L’avvento della conoscenza “laica” è stato invece, per me, fondamentale: e questo anzi dovrebbe favorire il suo discorso, dove la “narrazione” è la radice di tutti i mali.

In conclusione: Bregman tralascia la “complessità” della società, e il fatto che l’amicizia delle piccole comunità non possa essere replicata su larga scala (non siamo fatti per riconoscerci in tanti, ma solo in piccole parti di comunità: 150, forse 200 individui). Per tenere assieme la società serve uno storytelling efficace. Che non deve essere finto, ma anzi condiviso il più possibile.

Insomma: l’uomo è socievole e gentile per natura (e su questo possiamo essere d’accordo), ma la società, nel suo insieme, è così complessa da creare sovrastrutture non liquidabili come semplici “narrazioni finte”. E ricordiamo che la tecnologia aiuta, non è un ostacolo. Va ovviamente usata bene, ma qui apriamo un fronte diverso, e forse altrettanto più complesso.

Voto 2/5