A dodici anni, Carla era già Carla. Voglio dire che aveva già l’impulso irresistibile di aggredire la vita assaporandola fino in fondo; voleva già immergersi fino in fondo in tutte le sensazioni che poteva provare, affogandoci dentro. Proprio come avrebbe continuato a fare per tutta la sua vita. Anche se non era ancora sviluppata (dalle mie parti dicono che non era ancora signorina), si poteva già capire che la bellezza non sarebbe mai stata la sua caratteristica principale. Bastava però sentirla parlare, o vederla sorridere entusiasta, per rimanere affascinati da lei.

Di tutto questo, Carla non ne era cosciente quel giorno, e del resto non lo sarebbe mai stata del tutto. A lei in quel momento bastava sapere che era domenica, che era il suo compleanno, e che lo avrebbe festeggiato con i suoi genitori, i suoi nonni, e il piccolo fratellino. Ma sarebbe stato l’ultimo giorno tranquillo e felice della sua vita.

Tutto ciò che vi devo raccontare cominciò proprio allora. Era stata una giornata meravigliosa, con la sua famiglia: la gita al mare, il pranzo in spiaggia, e il gelato preso al porto nel pomeriggio. Mentre il padre guidava per tornare verso casa, il tramonto colorava il cielo di tutte le tonalità di giallo, rosso e indaco; uno spettacolo che lasciava senza fiato per la sua bellezza. Il fratellino di Carla, esausto, le dormiva affianco, semisdraiato nel sedile posteriore. All’improvviso lei chiese:

«Mamma, perché si è fatto tutto così buio?»

«Amore, non è buio, non vedi quanti bei colori?»

«Quali colori, mamma? Io vedo buio, e davanti la strada. Non è colorata»

«Carla, non giocare, dai, mamma è stanca: girati a sinistra e guarda che bel tramonto»

Carla girò il volto verso quella direzione, e fu come se una scena le comparisse dal nulla davanti agli occhi. Bella, bellissima. Ma quell’improvvisa generazione dal nulla del tramonto la spaventò.

«Non c’era prima, te lo giuro.» E dal tono di voce angosciato, la madre capì che stava dicendo la verità. Si voltò verso di lei.

«Sei solo stanca, amore di mamma. Domani poi ti portò dall’oculista, va bene?»

«Si mamma, va bene. Ora dormo anche io». Carla abbracciò il fratellino e si addormentò, ma senza sorridere.


“Retinite pigmentosa”

Due parole complesse, quasi neutre nella loro freddezza scientifica; ma che per Carla suonavano come una sentenza. Una malattia per la quale, come disse il primario che la visitò la prima volta, “la diagnosi è infausta”. In pratica, non esisteva cura.

Una malattia degenerativa degli occhi che non le avrebbe dato la cecità immediata, quanto piuttosto la perdita progressiva della vista. In pratica, non un nuovo mondo da reinventarsi, ma la progressiva perdita di quello vecchio.

Avrebbe prima sofferto della mancanza di visione notturna, poi di quella periferica e infine di quella centrale. Il tutto, in un tempo che – avevano detto a Carla e ai suoi genitori i vari medici consultati – poteva variare dai venti ai quaranta anni. Sindrome affrontabile unicamente in maniera temporanea con palliativi; in pratica, la si poteva solo rallentare con terapie vitaminiche. Per Carla, la condanna a una menomazione che poteva solo peggiorare, in una spirale che non avrebbe mai avuto fine lungo tutto l’arco della sua vita. Non per questo, però, rinunciò a vivere. La voglia che aveva di prendere a morsi la sua esistenza si era anzi fatta più forte che mai. A ventidue anni, era riuscita a realizzare il suo progetto più ambizioso: dopo aver terminato gli studi, e aver trovato un lavoro, era riuscita a trovare un’abitazione tutta per sé. Voleva a tutti i costi impedire alla “figliadiputtana” (la sua malattia la chiamava così, con un’unica parola) di mettersi in mezzo tra lei e i suoi desideri.

Aveva imparato ad apprezzare, soprattutto con il tatto, l’ampio monolocale che chiamava, con orgoglio, casa. L’armadio guardaroba alla destra della porta d’ingresso, seguito dal frigorifero e della dispensa, e un angolo cottura che, anche se piccolo, aveva tutto ciò che le serviva. E poi il protagonista: un divano letto comodissimo, che toneggiava al centro. Enorme, spazioso, e facile da aprire e chiudere. Sulla sinistra, un mobile libreria dove, al posto della TV, c’era invece una radio. Aveva rinunciato da tempo a quell’ingombrante elettrodomestico che si misurava in pollici. Poteva vedere poco, e quello che sentiva di certo non era di suo gusto. Subito dopo, passata una rientranza, si arrivava al bagno, che aveva anche una spaziosa cabina doccia. Io non l’ho mai visto, ma lei me lo ha descritto così bene che mi è sembrato quasi di averci vissuto assieme a lei.

Per Carla, la prima sfida era vinta. Adesso, era tempo di affrontare e vincerne altre. A quell’età si è ancora entusiasti, e lei lo era più di tutti..

Si era abituata in fretta a muoversi all’interno di quello che era il suo nido senza l’aiuto della vista. Anche se ancora poteva usare gli occhi, voleva tutto sotto il suo controllo anche al buio. Sapeva che, prima o poi – più prima che poi – avrebbe dovuto muoversi senza quel mediocre aiuto visivo, che sarebbe diminuito sempre di più fino – era solo questione di tempo – a scomparire.

Il suo obiettivo sarebbe stato adesso quello di invitare gli amici a casa, e di cucinare per loro. Il suo entusiasmo la portava sempre a scoprire come fare cose nuove, anche se sembravano assurde. A quell’età se ne ha tutta la voglia e il diritto, e lei non ci avrebbe certo rinunciato solo perché la figliadiputtana la erodeva da dentro, come un parassita. Quanto avrei voluto conoscerla allora, e non adesso!

Riuscire in quell’impresa, comunque, non fu cosa facile. Dietro le spesse lenti, riusciva a stare ai fornelli solo preparando cibi precotti che andavano scaldati, o surgelati che metteva nel microonde. Ma quando si trattava di fare un ragù, preparare un soffritto, o anche solo tagliare delle zucchine a rondelle, l’impresa diventava difficilissima. La sua visione era ormai quasi solo frontale, e per vedere di lato doveva girarsi, neanche troppo velocemente. Altrimenti non avrebbe apprezzato la gradualità del cambiamento, ma solo sofferto di un cambio repentino di immagine, come quando venivano proiettate le diapositive di una volta sul muro. E questo le provocava perdita di equilibrio e giramento di testa.

Comunque, ce la fece. Riuscì a fare il menù che voleva alle persone che desiderava avere in casa sua. Fettuccine fatte in casa al ragù bianco, e pollo in padella con caponata. Per dessert, una Sacher torte preparata da lei. Quella sera era orgogliosa per aver fatto qualcosa di nuovo e di bello, facendo contenti i quattro amici che aveva invitato, sorprendendoli. Era fiera di sè. “Carla-figliadiputtana 1-0. Piglia, incarta e porta a casa”, pensava.

Spostato il tavolo al centro del monolocale aveva apparecchiato, mentre stava finendo di cucinare. L’aria di “Feelin’ alright” di Joe Cocker che usciva dalla radio si diffuse ad alto volume e Carla, quasi danzando, continuò a preparare. Spense la luce, tanto a lei ormai serviva a poco e cominciò a canticchiare muovendosi a tempo, sorridendo. Era sempre poco armonica, difficilmente la sua danza si sarebbe potuta definire graziosa, ma a lei non importava. Era felice, in quel momento sono certa che chiunque si sarebbe innamorato di lei. Chiunque, e lei sembrava saperlo:

“…Boy you sure took me for one big ride

Even now I sit and wonder why

And when I think of you I start myself to cry out

I just can’t waste my time, I must keep dry

Gotta stop believin’ in all your lies

‘Cause there’s too much to do before I die, hey

You feelin’ alright?”

Stop. Si era fermata, all’improvviso. La luce della luna piena entrava dalla finestra nel monolocale completamente buio, illuminando quasi come un occhio di bue il piccolo ripiano accanto all’angolo cottura. Le verdure rimaste: una melanzana, due pomodori, mezzo peperone, tre zucchine, giacevano in una ciotola; sembravano – quali erano – reduci di un esercito sconfitto e in rotta. Accanto, un bicchiere riempito per metà di vino rosso rifrangeva la luce del satellite dando un sapore malinconico a tutta la scena. Tutto attorno, un buio che non era mancanza di luce, quanto piuttosto il guscio protettivo di quel micro paesaggio. Era esattamente quello che vedeva lei tutte le volte, ma stavolta non per colpa dei suoi occhi, ma perché era giusto che fosse così.

Una lacrima. Sapeva, Carla, che era questo quello che stava perdendo, giorno dopo giorno. Questi colori, queste emozioni, questi attimi di perfezione, dove uno dei sensi era completamente appagato. Quello che la stava giorno dopo giorno lasciando.

Prese lo smartphone e riuscì, per miracolo, a scattare una foto intuendo, più che inquadrando, la scena. Era un antipasto di ciò che le avrebbe riservato il futuro, nel bene e nel male, ma lei non poteva saperlo.

Riuscì a ricomporsi poco prima che il citofono annunciasse l’arrivo degli ospiti.

Fu quella la prima di tante cene felici, per Carla. Aveva trovato tra i colleghi di lavoro questi nuovi amici: belle persone, e compagni fidati. Da quel giorno, i “venerdì da Carla”, per quel piccolo gruppo di persone, divenne un’abitudine. Lei era al settimo cielo, e il suo contagioso entusiasmo aveva coinvolto tutti gli altri.


Passò altro tempo. Carla aveva adesso trentadue anni, e una vita piena. Non solo i “venerdì da Carla” erano diventati stabili da un decennio, ma altre persone si erano unite a quella compagnia. Certo, alcuni colleghi avevano abbandonato, chi perché aveva cambiato lavoro, chi perché trasferitosi altrove. Ma un gruppo di cinque o sei persone era sempre presente alle cene che lei organizzava con gioia, come evento che dava inizio al week end. Lo raccontava con nostalgia, le poche volte che me ne parlava. Avrei voluto esserci. Vedere Carla felice è l’unica cosa che mi è mancata.

Al lavoro la sua ormai ridottissima vista la costringeva al ruolo di centralinista, ma a lei non importava; non era la carriera quella che cercava, ma solo la maniera di avere il suo posto – da cieca, perché questa era la parola, in una società che basava tutto sulla vista. Nonostante le sue difficoltà, cominciò a seguire un corso di disegno, e poi di pittura. Quell’ultima fotografia la ispirava tantissimo, e riusciva a replicare ciò che lei vedeva regalando le sue sensazioni agli altri.

Continuava a essere sempre la prima a entusiasmarsi e a proporre cose nuove agli amici. E loro, affascinati, la seguivano. Gruppi di lettura, gite in barca, o anche solo una visita ai musei cittadini, tutto andava bene per stare insieme.

Pur continuando a non essere bella, la sua vitalità e i suoi sorrisi entusiasti facevano sì che i pretendenti non le mancassero. Che però lei rifiutava con cortesia. Sapeva cosa voleva dire convivere con la figliadiputtana, e non voleva dare questa condanna a nessuno. O almeno, questa era la giustificazione che si dava. In realtà non riusciva a innamorarsi. Le cure che provava, e la voglia di vivere che aveva, la occupavano così tanto da non pensare a conoscere meglio, e magari interessarsi, a qualcuno.

Fino a quando lui non era comparso.

Era reduce dal fallimento dell’ennesimo tentativo sperimentale di cura, che non solo non le aveva arrecato nessun beneficio, ma che era stato anche particolarmente doloroso. Quella sera, al corso di pittura, ci andò con il morale a terra. Si sedette al suo solito posto quando con il bastone bianco con la rotella che era costretta ormai a portare, urtò una gamba. Strano! Davanti a lei in quell’aula fino a quel momento non c’era nessuno.

«Mi scusi.» fece cautamente

«No, sono io che mi scuso. Sono Edoardo.»

Il nome, l’odore, il tono della voce, il poco che poteva vedere di lui, concentrandosi e cercando di metterlo a fuoco esattamente al centro delle sue povere pupille. Bastò questo. Ebbe la certezza che se ne sarebbe innamorata da subito.

Assieme, cominciarono a dipingere, e poi, una volta insieme, a organizzare anche i “venerdì da Carla”. Stava scoprendo le gioie di un rapporto intimo, e non solo di compagnia o di stima, con un’altra persona.

Carla era felice, come – in quel momento ne era convinta – più non avrebbe potuto. Ormai quasi cieca (ipovedente, dicevano, come se addolcire le parole migliorasse la realtà), senza prospettive lavorative e costretta in un minuscolo monolocale per questioni economiche, ma piena di tutto ciò che desiderava: amici, passioni e adesso anche il suo uomo.

Fino a quel giorno maledetto.

Erano nel letto, accarezzandosi quietamente dopo aver fatto l’amore. Carla trovava meraviglioso scoprire che la vista, in quei casi, era solo un impedimento: molto meglio godersi Edoardo con il tatto, sentendone il corpo e il volto sotto le sue dita, oppure lasciandoci accarezzare, vibrando di piacere nei punti dove sentiva i polpastrelli di lui indugiare. La eccitava anche l’odorato, percependo il calore del suo fiato o l’odore della sua pelle sudata. Erano i momenti migliori, quelli, dove si sentiva in una situazione di parità dei sensi, quando non di superiorità. Il monolocale era lasciato di proposito semibuio, cosa che le piaceva ancora di più.

«Sai, pensavo di farti una sorpresa – aveva esordito lui, ancora ansimante – visto che tra poco farai gli anni. Volevo aspettare l tua festa, ma a questo punto…»

Si alzò e, frugando nella giacca, tirò fuori un depliant di quelli divisi in tre.

«C’è questa nuova cura sperimentale che fanno in una clinica qui vicino basata su cellule staminali, e che promette un successo contro la tua malattia, la retinite pigmentosa. Certo, costa molto, ma ne vale la pena. Ho prenotato la visita per la prossima settimana. Voglio affrontarla con te questa cosa, e credo che assieme possiamo esplorare anche questa possibilità… ma cosa stai facendo?»

Carla si era rialzata, il volto scuro come non le era mai capitato. Le mascelle serrate, i muscoli del viso contratti si stava cominciando a rivestire, rimettendosi il reggiseno.

«Che c’è che non va? È il mio regalo di compleanno.»

«Vai via. Edoardo, vai via. Ti prego.»

«Ma non ti fa piacere che pensi a te?»

«Mi hai fatto male, Edoardo. Come mai nessuno prima. Vai via, ti prego.» Faceva fatica a rimanere calma. Ma la tensione era percepibile. Le parole che pronunciava avrebbero tagliato un diamante, per quanto erano affilate.

«Non ci sto capendo nulla, Carla! – lui aveva detto, alzando la voce – cosa ho fatto, adesso? Almeno apprezza lo sforzo!»

«Mi fa male che tu non sappia cosa hai fatto! – Carla stavolta aveva urlato, non riuscendo più a contenersi – mi fa male il fatto che tu pensi che io possa essere più felice con la vista! Che tu mi tratti da handicappata, voglioso di togliermi l’handicap! Che tu pensi che io abbia sopportato questa condizione e non l’abbia invece affrontata ormai da più di venti anni! Che tu non capisca che dopo tutti i tentativi fatti sono stanca! Voglio accettarmi così! Carla è questa! E tu invece ne vuoi un’altra, con la vista, non me! Ora vai via, Edoardo! Vai via.»

Edoardo si alzò con lentezza, si rivestì, e uscì fuori dal monolocale. In quel momento Carla non sapeva se l’avrebbe mai più incontrato, né se voleva farlo. Stava piangendo tutte le lacrime che aveva ricacciato dentro per tutta la sua vita, perché non voleva compatirsi. Ma quel gesto di Edoardo, fatto a fin di bene e con le migliori intenzioni, le aveva squadernato davanti tutta la realtà: lei non era “come gli altri”, per quanto sforzi potesse fare. Eppure, era facile: aveva solo una diversa cassetta degli attrezzi con cui montare e riparare la propria vita rispetto agli altri, e invece anche Edoardo, anche il suo amore, anche la persona su cui aveva investito tutto il suo essere donna, giudicava la cassetta, e non lei che la usava. Un dolore non più controllabile. Al buio, prese una tela. Ormai disegnava con la mente, e tratteggiò un vaso, con dei fiori dentro: bianchi, gialli, rossi, viola. Soprattutto viola. Non sapeva cosa e come stava disegnando. Ormai, aveva imparato a riconoscere i colori sono tramite l’olfatto, e i tratti, più che vedere come venivano, li…sentiva. Non c’era un senso particolare che le supplisse la vista. Erano gli altri quattro assieme che le facevano giudicare il suo disegno per poi correggerlo. Andò avanti per tutta il resto del giorno e della notte. Si addormentò all’alba, con la sua disperazione trasferita all’opera.


A quarantadue anni, Carla poteva dirsi finalmente ricca. I quadri che lei faceva erano venduti bene, e quando si scoprì che l’autrice era ipovedente, il prezzo delle sue opere triplicò all’istante. Per lei fu una soddisfazione amara. “Se un cane dipinge un quadro, conta che lo faccia, e non come”, mi diceva sempre. Almeno, aveva sfruttato questa stupida compassione delle persone dal punto di vista economico. Non era più nel piccolo monolocale che aveva ospitato il periodo più felice della sua vita, ma in un lussuoso ultimo piano di un palazzo signorile. La vista era scomparsa del tutto, solo vaghe luci a rischiarare il buio nei momenti più chiari della giornata, e solo se lei aveva proprio davanti l’oggetto da osservare. Adesso quando usciva, sempre accompagnata da me, portava degli occhiali scuri che lei odiava, e di cui se ne liberava una volta a casa. Poteva permettersi una colf adesso, e anche per casa non faceva più nulla. Ma questo – se ne rendeva conto lei stessa – faceva sì che quell’appartamento non fosse a lei conosciuto come i pochi metri quadri dove risiedeva fino a qualche anno fa. Anche se io facevo di tutto per farle piacere quel posto. Come colf, volevo far bene il mio lavoro. Come donna, mi ero perdutamente innamorata di lei.

La storia con Edoardo era continuata, anche con sempre meno trasporto, fino a terminare per inedia. Non era riuscita a rinunciarci subito, si era illusa per qualche tempo di poter proseguire con lui, ma alla fine il disinteresse di entrambi per ciò che avevano scoperto essere aveva preso il sopravvento. Triste destino, per una storia fatta di passione e di colori sgargianti, quella di finire con un semplice sbuffo di fumo grigio.

Anche i “venerdì da Carla”, ormai, erano solo un ricordo. Da quando aveva lasciato il lavoro per fare la pittrice a tempo pieno, e si era trasferita, i colleghi e gli amici avevano provato a continuare quella tradizione, per scoprire però, a poco a poco, che ormai non c’erano più né gli interessi comuni né la voglia di parlare di ciò che si viveva. Le loro vite erano diventate troppo diverse, e Carla non era più l’entusiasta e la trascinatrice, ma quella famosa e basta. Del resto, c’ero io a cucinare e a servire ora, non era più lei a preparare la cena. Aveva smesso di dare sé stessa al mondo, e il mondo quando se ne accorse le voltò le spalle. E, come in un circolo vizioso, lei sentiva questo atteggiamento degli amici cominciando a chiudersi e giustificando così ciò che all’inizio era solo un’impressione. Sempre più cortesi e monotone, anche quelle cene terminarono senza che ci fosse un evento particolare come causa, ma per pura e semplice mancanza di interesse.

Sdraiata sul letto dopo il riposo del dopo pranzo, quel giorno Carla meditava su tutto questo. Su chi era, su cosa era diventata, e in quale maniera ancora la sua vita poteva offrire interesse. Abbassò un braccio e sotto il letto prese una delle poche tele bianche che le erano rimaste. Dipingere era ancora adesso l’unica maniera che aveva di pensare, di esprimersi, di comunicare qualcosa, persino a sé stessa.

Con la tela in mano si alzò e andò in cucina. Cercò con le mani tastando il pianale, fino quasi a pungersi con il bordo di un contenitore. Sempre con il tatto, sentì dei globi rotondi. Inspirò profondamente. Mele! Si, mele in un vaso, ecco cosa poteva dipingere. “Still life”, natura morta, in inglese. Ma anche “Ancora vita”, traducendola letteralmente. Gia, “it’s still life” pensò Carla. Ancora vita. Ma per cosa?

Spostò il contenitore al centro del pianale. Aprì la finestra e accese tutte le forti luci della cucina.

Prese pennello e tavolozza. Cominciò a dipingere il pochissimo che vedeva: il contenitore con il bordo appuntito e sopra cinque mele. Rosse, mature, lucide. Non sapeva se erano così, lei le sentiva comunque in quella maniera. Una sesta, ancora più scura delle altre, appena spostata, come fosse appena rotolata fuori. Tutto attorno, il nero. Nero che era assenza di colore, era nulla.

“Quell’ultima mela è caduta – pensò, quando aveva finito – era matura ed è caduta. Non aveva più motivo di stare li sopra. Tutto ciò che è maturo si stacca dal ramo che le dà vita e cade a terra.”

Poggiò con calma pennello e tavolozza

“Anche io, come quella mela, sono matura.”. Prese la tela e la mise in bella mostra, appoggiandola sopra il tavolo. “Anche io non più motivo di stare qui sopra questo ramo autunnale, e devo cadere a terra. Non più gli amici, non più un compagno”. Girò il volto verso la finestra spalancata. “Quello che dovevo dire alla vita l’ho detto, ormai sono completamente matura. Perché marcire?”

Sentii questi pensieri, che lei disse a voce alta, troppo tardi.

Prese la rincorsa e si gettò. Fece in tempo a sentire il mio urlo, ero appena entrata in cucina.