Il dibattito imperante sull’”infodemia” (ossia sulla pervasività delle informazioni, che lungi dall’aiutare a dare un significato alla realtà, rendono come effetto finale l’uomo incapace di orientarsi) sta diventando tragicamente applicabile non solo ad analisi sociologiche e filosofiche, ma anche a avvenimenti concreti, che sono attualmente teatro di distruzione.

Chi critica l’eccessiva quantità di informazioni che esimono l’individuo dal pensare usa ragionamenti fondati sulla mancanza di approfondimento, o sulla contrapposizione tra informazione astratta e collegamento concreto di questa alla realtà (le “cose” contrapposte alle “informazioni”) La critica non è peregrina, e – per quanto figlia di una visione pessimistica del mondo – centra il punto molto bene: in mancanza di un’adeguata preparazione, l’informazione decontestualizzata dall’ambiente e dalla realtà rischia di essere fuorviante diventando realtà essa stessa. In mancanza di questo collegamento con il mondo (con le “cose”), qualsiasi informazione è valida. Anche una fake news; anzi una bugia, cominciamo a chiamarla con il suo nome: uno dei guai grossi dello scollegamento informazione/realtà è anche l’utilizzo di nomi “emotivi” per dare un giudizio già “semantico” delle idee. La “post-verità” è una menzogna, e chiunque ritiene tutte le idee degne di essere espresse è uno rispettoso, non un “relativista”.

 

Eppure questa posizione, che pure trovo degna del massimo rispetto e non liquidabile come sbrigativamente “errata”, non riesce a convincermi al 100%. La tragedia che si sta vivendo un Ucraina in questi giorni ne è secondo me la prova più evidente. Chi è sotto i bombardamenti, o chi sta combattendo per l’una o per l’atra parte non lo fa per una propaganda tutta basata sulle informazioni o cose astratte. Ma perché c’è una nazione che invade e una che è invasa, e perché le armi distruggono. Tutte le armi.

 

Intendiamoci: qui non si tratta di appoggiare l’idiozia propagandistica del “Putin pazzo/Occidente buono” che porterebbe a tifare per lo Zar (perché i titoli cambiano, in Russia, ma i ruoli no) pensando a quanto fatto in Kosovo, Afghanistan, Iraq, Libia (e cito solo alcuni scenari degli ultimi venticinque anni) da chi adesso parla di “guerra insensata”, né di negare al popolo Ucraino il diritto di difendersi al meglio delle sue possibilità (sue, appunto). Si tratta però di riconoscere che si è in guerra, e che questa volta la guerra è stata voluta da qualcun altro. C’è poco da discettare di propaganda, uso distorto e non democratico delle informazioni, incapacità di elaborazioni delle stesse frutto di decenni di uso di “armi di distrazione di massa”. Abbiamo un conflitto che minaccia cose e persone, e per trovare una soluzione bisogna anzitutto riconoscere l’asimmetria delle posizioni.

 

Ciò che quindi va analizzato, a mio modo di vedere, non è la quantità di informazioni o il fatto che ormai manchino di supporto concreto. Se proprio vogliamo dirla tutta, infatti, le informazioni nascono già prive di supporto concreto: è stata l’invenzione della scrittura a dar loro concretezza. Ma il fatto che anni di indebolimento degli strumenti di costruzione culturale hanno reso l’umanità (almeno, tutta l’umanità in grado di accedere a un determinato tipo di informazioni: stiamo comunque parlando di più di metà del genere umano) meno capace di elaborare gli “input”.

 

Il motivo di questa strategia – messa in piedi da regimi autocratici senza troppa fatica, e da regimi democratici con una visione più a lungo termine, ma altrettanto efficace – è presto detto: va creato un automa che sia prevedibile nelle sue reazioni, in modo tale da averne maggior controllo. Politicamente quindi meno imprevedibile, e dal punto di vista capitalistico un “consumatore perfetto”. Il pensiero istintivo, infatti, essendo quello nato per istinto di sopravvivenza, è altamente prevedibile. E quando si sceglie con quel tipo di pensiero in assenza di istinti di sopravvivenza in genere si sbaglia.

 

È il pensiero meditato che porta a fare scelte ragionate (non giuste o sbagliate: ragionate: ma le scelte ragionate difficilmente sono sbagliate). Quando, anziché liquidare chi si oppone alla narrazione della guerra come “Russia cattiva/Zelenski eroe” con il nomignolo “figlio di Putin” (l’epiteto rende idiota chi la dice, questa cosa,: Basterebbe leggere Dostoevskij – ops), o dire che questa guerra è “responsabilità della strategia scriteriata della NATO” liquidando chi si oppone a questa vista come “guerrafondaio” (come se non ci stessimo già, in guerra, e lo sforzo sia non solo quello di trattare, ma anche di difenderci), si potranno vedere le cose non sparando sentenze ma articolando il discorso (e per far questo, anche se ambra cinico, va tolta l’emotività: dalle descrizioni dei martiri alle foto dei bambini sotto le bombe, la propaganda punta solo all’emotività) e ascoltando l’altro (se ha voglia di parlare e non di urlare), forse il dibattito sull’infodemia, la negatività dei social, o l’idiozia della plebe terminerà da sé.

 

E’ così difficile?