«Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà» (Aldo Moro, 28 febbraio 1978, discorso ai parlamentari DC)

 

Nella sua pubblicazione ‘1978. Il Delitto Moro’, lo storico Vittorio Vidotto afferma che ‘Gli storici dovrebbero […] stare al pezzo, come buoni artigiani, esaminare i fatti, discernere quelli attendibili, lavorare su quelli rilevanti e seguire e seguire il principio della distinzione tra quelli rilevanti e quelli che non lo sono […] ricordando che non esistono ricostruzioni definitive e che le interpretazioni mutano non solo in rapporto all’aggiungersi dei documenti, ma anche in relazione alle domande che ci poniamo’.

Ci atterremo, per raccontare i 55 giorni che vanno dal 16 marzo al 9 maggio 1978, a questa indicazione, che riteniamo molto saggia. Il periodo più buio della nostra storia repubblicana che comincia con il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta, continua con il comportamento dello Stato durante la prigionia del presidente DC che lanciava disperati appelli per una soluzione incruenta, e termina infine con il suo assassinio, va raccontato non tacendo i punti oscuri ancora presenti, ma evitando al tempo stesso di seguire piste complottistiche più o meno suffragate da prove.

 

Che gli americani ed i sovietici, le due superpotenze che si contrapponevano in una “Guerra Fredda” anche attraverso azioni sugli stati satelliti, non vedessero di buon occhio, per diversi motivi, l’operazione politica del ‘Compromesso Storico’ che Moro stava portando avanti assieme ad Enrico Berlinguer ormai da almeno due anni è un fatto. Lo si desume dalle comunicazioni ufficiali degli USA e dall’aperta ostilità del regime sovietico verso la politica del segretario del Partito Comunista Italiano. Ma da qui ad affermare che ci fu la mano di una – o di tutte e due – le superpotenze mondiali, o che servizi segreti nazionali ed esteri più o meno deviati abbiano partecipato al rapimento ed all’uccisione dello statista della Democrazia Cristiana col preciso intento di fermare una nuova fase della politica italiana ce ne corre. La realtà è molto probabilmente infinitamente meno romanzesca. La disorganizzazione dello Stato, l’incompetenza di alcuni funzionari che pensarono più a coprire le loro responsabilità che non a cercare una soluzione al caso, il tragico e violento dilettantismo politico delle stesse Brigate Rosse – pieni di follie idealiste con poche o punte aderenze alla realtà – portarono a quella fatale conclusione. Non ci sono evidenze certe di altri motivi, e voglio ricostruire quel periodo buio attenendoci ai fatti accertati. voglio, insomma, solo raccontare a chi non l’ha vissuto, e far ricordare a chi c’era, quel periodo.

 

Quella giornata del 16 marzo 1978, un giovedì, sarebbe stata comunque di importanza capitale per la vita politica italiana anche se il rapimento di Moro non fosse avvenuto. Dopo 31 anni di opposizione dura ed intransigente, infatti, il PCI, il più grande Partito Comunista dell’Europa Occidentale, sarebbe forse entrato nella maggioranza di governo. La situazione politica italiana di fine anni ’70 era profondamente instabile, vista la precarietà dell’equilibrio istituzionale all’interno dei palazzi del potere, ed anche vista la presenza di un’eversione armata soprattutto, ma non solo, di sinistra, che oltre a colpire con atti terroristici tramite attentati ed assassinii riusciva anche ad ottenere, se non il consenso, quantomeno una giustificazione all’interno di larghe fasce della società.

 

Per capire quanto quel giorno fosse rilevante per le sorti del paese, dobbiamo fare un piccolo salto indietro di due anni, quando dalle urne delle elezioni politiche del 1976 uscirono fuori due vincitori: il PCI che toccò, con oltre il 34% dei voti il punto più alto del suo consenso politico e la DC che, sottraendo anche voti ai suoi alleati storici come PRI, PLI e PSDI ebbe il 38%. Due partiti vittoriosi, dunque, che arrivavano oltretutto da tre decenni di continue battaglie politiche, non solo incentrate sulla diversa appartenenza ideologica, ma anche caratterizzate dal fatto che il rapporto maggioranza-opposizione era ormai cristallizzato, senza che ci fosse mai stata, al governo del paese, una reale alternanza.

Portare il PCI all’interno del gioco democratico dal quale era escluso anche per questioni di blocchi di politica estera era un’impresa difficile, e la persona che più si era spesa per realizzare tale obiettivo era proprio l’allora presidente della DC, Aldo Moro. Era riuscito, nel decennio precedente, a coinvolgere il Partito Socialista – uscito nel ’56 dall’alleanza programmatica del Fronte Popolare con il PCI – nel governo del paese. Ma se questa manovra aveva reso un servizio alla democrazia italiana, aveva lasciato al PCI l’esclusiva dell’opposizione. Un’opposizione che fino all’avvento di Berlinguer riguardava non solo il programma di governo, ma la struttura stessa dello stato, che i comunisti volevano – quantomeno a parole – sul modello delle democrazie socialiste dell’URSS e dei suoi paesi satelliti riuniti sotto il Patto di Varsavia. Gli equilibri geopolitici usciti fuori dalla II Guerra Mondiale prevedevano un’Italia nell’orbita USA, e quindi tale soluzione non era concepibile a meno di non creare un conflitto nel cuore stesso dell’Europa. Ma il PCI continuava a guadagnare consensi nel paese, soprattutto grazie alla guida del suo ultimo segretario, Enrico Berlinguer. Questi aveva portato i comunisti italiani ad accettare, ed anzi a considerare preferibile, la democrazia parlamentare parlando di ‘esaurimento della spinta propulsiva’ dell’URSS, traghettando così il suo partito verso l’accettazione della struttura istituzionale del paese e del pluripartitismo.

 

Le ultime votazioni politiche avevano di fatto certificato una situazione di empasse. Il governo precedente, nato da quelle elezioni del 1976 era basato sulla formula lievemente ipocrita della “non sfiducia” da parte del PCI, era scaturito proprio dalla necessità di cercare di superare tale blocco, ma nel gennaio 1978 era terminato proprio per formalizzare ancora di più tale accordo tra i due maggiori partiti italiani e consentire così ai comunisti di entrare anche formalmente in maggioranza.

I protagonisti di questo grande disegno strategico, oltre a Moro, erano Berlinguer, il segretario politico del PCI che come detto aveva portato quel partito – lentamente ma inesorabilmente – su posizioni sempre più democratiche, fino ad arrivare a strappi più o meno accentuati con l’URSS di Breznev, e Ugo La Malfa, che dalla sua posizione di leader di un piccolo partito come quello Repubblicano riteneva che solo l’ingresso in maggioranza del PCI avrebbe portato alla normalizzazione economica e sociale del paese. Alleati riluttanti al quello che sarebbe stato poi chiamato ‘Compromesso Storico’ erano invece il PSI di Bettino Craxi, costretto a partecipare per evitare il rischio di rimanere schiacciato tra i due grandi partiti usciti vincitori dalle elezioni del 1976, e Giulio Andreotti, da sempre l’uomo di governo della DC, Presidente del Consiglio uscente.

 

Non fu, ovviamente, un percorso semplice. I democristiani di destra si opponevano, in nome di un anticomunismo che era solo in parte pregiudiziale, ma che spesso nascondeva la difesa di interessi più o meno segreti, all’ingresso del PCI in maggioranza. Ma erano soprattutto gli Stati Uniti che fecero capire, in maniera né delicata né cortese, che quella manovra politica loro non la gradivano. Una nota ufficiale del Dipartimento di Stato USA del 12 gennaio 1978 recitava che «Noi non siamo favorevoli a tale partecipazione (del PCI nel governo ndr) e vorremmo vedere diminuire l’influenza comunista nei paesi dell’Europa Occidentale». Persino Andreotti si irriterà, chiedendo all’ambasciatore statunitense in Italia un chiarimento a tale ‘interferente intelligenza’, come il politico romano scrisse nei suoi diari. Paradossalmente, ma neanche poi troppo, la collaborazione tra DC e PCI non era gradita neanche all’URSS di Breznev, che nel momento in cui il PCI accettava il sistema di democrazia parlamentare vedeva sconfessato il suo modello di democrazia socialista proprio dal più grande Partito Comunista dell’Europa Occidentale. La tensione tra Berlinguer e i vari esponenti del Patto di Varsavia, Breznev in testa, era notevole, e ci fu anche più di un sospetto che, durante una visita a Sofia nel 1973, l’incidente automobilistico di cui il segretario del PCI fu vittima e dal quale ne uscì indenne fosse in realtà un attentato dei servizi segreti di oltrecortina.

Chi oggi ha meno di quaranta anni e che quindi ha solo letto, e non vissuto, quegli anni fa fatica a capire la gravità di determinate tensioni , ma ricordiamo che il 1978 è più lontano temporalmente da noi di quanto non lo fosse dalla fine della II Guerra Mondiale e dall’inizio della Guerra Fredda, che aveva portato i carri armati sovietici a Praga nel 1968 ed il colpo di stato di Pinochet – eterodiretto dagli USA – in Cile cinque anni più tardi, solo per citare gli episodi più eclatanti del decennio precedente. Interferire negli affari interni di altri stati dei propri “blocchi”, così come questi erano stati definiti alla fine della II guerra mondiale, era forse inopportuno, ma le due superpotenze non si facevano di certo questi scrupoli, e la situazione non sembra sia cambiata molto da allora.

 

Il tentativo di Moro e di Berlinguer, quindi, andava in una direzione opposta a quella che definita dalle due superpotenze mondiali, una direzione difficile da percorrere, ma che sembrava essere l’unica possibile per cercare di risollevare l’Italia, che dopo i decenni del boom economico stava attraversando una fase di crisi non indifferente.

Gli incontri tra Moro e Berlinguer furono tanti, nell’arco di quegli anni, e furono quelli di due uomini che , ritrovatisi su sponde opposte capiscono ognuno le ragioni dell’altro, individuando nella crisi del paese anche un’opportunità importante per cambiare in maniera drastica le regole di un gioco che aveva portato per trent’anni a non avere alternanza nelle maggioranze parlamentari.

Sponde opposte in tutto, quelle dei due statisti: sia come formazione politica (Moro era un professore universitario, Berlinguer un uomo nato e cresciuto nel Partito), sia come empatia verso l’opinione pubblica. Moro era infatti noioso nei suoi discorsi, e non apprezzato dalla stampa, che lo chiamava il “Dottor Divago”. Berlinguer era al contrario un oratore formidabile senza essere demagogo ed era così adorato da tutti da costringere Eugenio Scalfari, che pure lo apprezzava, ad avvertire in un’editoriale del neonato quotidiano ‘La Repubblica’ che ‘Berlinguer non è la Madonna’ e che quindi era criticabile. Ma erano loro due che prima di tutti avevano visto la crisi degli equilibri dell’epoca che le elezioni del 1976 avevano certificato, e che, sempre prima di tutti, avevano anche trovato la soluzione.

 

Nel suo ultimo discorso pubblico, 16 giorni prima del rapimento, Moro, nel suo solito stile ambiguo e arzigogolato fu forse chiaro come non mai. Parlò ai parlamentari DC del fatto che una battaglia con due vincitori crea una situazione di stallo dove ognuno immobilizza l’altro, e che era obbligatorio «trovare un’area di concordia, un’area di intesa tale da consentire di gestire il Paese finché durano le condizioni difficili alle quali la storia di questi anni ci ha portato». Area di concordia che il PCI dimostrava di voler trovare. Era un’opportunità da sfruttare; del resto, disse, «Se non avessimo saputo cambiare la nostra posizione quando era venuto il momento di farlo non avremmo tenuto, malgrado tutto, per più di trenta anni la gestione del Paese». L’anticomunismo aprioristico doveva quindi terminare. Anche se «un’intesa politica che introduca il PCI in piena solidarietà con noi non la riteniamo possibile». Cercava, Moro, di convincere i riluttanti democristiani ad accettare l’ingresso del PCI in maggioranza.

Dall’altro lato, il PCI chiedeva poco, consapevole che già il solo fatto di far parte della maggioranza di governo sarebbe stato un successo. Acconsentiva ad una riconferma del governo ‘monocolore’ DC come quello appena cessato, ed accettava anche la conferma di Andreotti a Presidente del Consiglio. Le uniche richieste fatte erano la riduzione del numero di ministeri e sottosegretariati, la non riconferma dei ministri più dichiaratamente anticomunisti, la nomina di qualche “tecnico” in alcuni ministeri particolari.

Il discorso di Moro che abbiamo citato era del 28 febbraio 1978, quando ormai le consultazione per il nuovo governo si protraevano da oltre un mese. Tredici giorni dopo il governo era formato, ma senza che nessuna richiesta del PCI venisse accolta. Fu uno schiaffo ai comunisti, che infatti, soprattutto per bocca di Pajetta, protestarono molto. Berlinguer ricucì a fatica le fila della protesta interna al partito per questo patto non rispettato, affermando che la decisione o meno di dare la fiducia al governo sarebbe stata presa solo dopo aver sentito il discorso di Andreotti alla Camera dei Deputati, proprio il 16 marzo 1978. Contatti febbrili si tennero fino alla notte prima, con Tullio Ancora per Moro e Luciano Barca per Berlinguer a fare da ambasciatori delle istanze dei loro referenti politici.

 

Quella mattina, poco prima delle 9, Aldo Moro sale nella macchina di servizio (una FIAT 130) assieme a due carabinieri, e seguito dalla scorta di tre poliziotti su un’Alfetta. Aveva con se, oltre a cinque valigette con i suoi documenti e le sue medicine, la solita mazzetta di quotidiani, che riportavano l’ennesimo attacco contro la sua persona, molto probabilmente, di nuovo, fatto uscire da qualche voce USA: l’ ‘Antelope Cobbler’ dello Scandalo Lockheed, il nome in codice del regista italiano di tutta quell’operazione scandalosa, prima vera “tangentopoli” della Repubblica, non era altri che Aldo Moro. Non sapremo mai come lo statista pugliese (Moro era di Maglie, in provincia di Lecce) accolse quella notizia: pochi minuti dopo, mentre le due macchine percorrono Via Fani per accompagnare Moro alla chiesa di Santa Chiara per una preghiera, come era uso fare, vengono bloccate da un commando che trucida i cinque uomini di scorta e rapisce il presidente DC trascinandolo verso un furgone che poi si volatilizzerà in brevissimo tempo. La rivendicazione che arriverà dopo poco più di un’ora confermerà il sospetto che già tutti avevano. A rapire Aldo Moro erano state le Brigate Rosse.

L’azione è descritta nel dettaglio in moltissime pubblicazioni ed emerge anche dalle varie commissioni d’inchiesta sulla materia. È figlia di una preparazione durata svariati anni da parte dei brigatisti. Scartati Andreotti e Fanfani, molto più difficilmente raggiungibili, si optò per Aldo Moro solo in un secondo momento. Si pensò di poter effettuare il sequestro in maniera incruenta, in quanto il cattolicissimo statista, che credente lo era sul serio (credenti ce ne erano persino nella DC), aveva l’abitudine – all’inizio di ogni giornata – di fermarsi nella chiesa di Santa Chiara per la sua preghiera mattutina, come aveva intenzione di fare anche quel 16 marzo 1978. La colonna romana delle Brigate Rosse ipotizzò un sequestro proprio all’interno della chiesa. Sarebbe bastato bloccare i due uomini di scorta all’interno dell’edificio sacro. Ma il rischio di un conflitto a fuoco che potesse coinvolgere anche i bambini di una scuola vicina convinse i terroristi ad optare per il rapimento dell’Onorevole Moro durante il tragitto che da casa lo portava a Santa Chiara, uccidendo gli uomini della scorta. Ad ognuno di noi il giudizio sulla logica, sull’etica e sulla morale di tale scelta.

 

Via Fani fu individuata come luogo dell’agguato in quanto posto quasi ‘perfetto’ per agire: è una strada in leggera discesa, e c’è uno stop all’incrocio con via Stresa, dove i brigatisti erano convinti di poter fermare il convoglio delle due auto.

Mentre la parte bassa di via Fani veniva bloccata da un’auto e la brigatista Barbara Balzerani fermava il traffico con paletta e mitra al collo, all’incrocio con via Stresa una macchina con targa del Corpo Diplomatico si piantava allo stop, impedendo alla FIAT di Moro ed all’Alfetta di scorta di proseguire. Su quell’incrocio in genere stazionava il furgoncino di un fioraio, che però quel giorno non era presente: si era ritrovato tutte e quattro le ruote squarciate nella notte proprio dai brigatisti rossi, che volevano evitare la presenza di quell’impedimento logistico.

Con il convoglio così bloccato, 4 brigatisti travestiti da avieri Alitalia uscirono dalle siepi di un bar chiuso dietro il quale erano nascosti e cominciarono a fare fuoco, supportati da altri terroristi che uscirono da automobili posizionate strategicamente. L’azione colse i carabinieri ed i poliziotti a guardia del presidente DC di sorpresa, e non durò molto. Dopo pochi minuti, ed oltre 90 colpi di mitra e pistole, i 5 uomini della scorta erano tutti caduti e Moro fu preso dal suo sedile posteriore e condotto via, verso il covo di via Montalcini dove avrebbe trascorso gli ultimi 55 giorni della sua vita. I brigatisti affermarono poi che la scelta del 16 marzo fu casuale, in quanto avevano previsto di poter effettuare il colpo in un giorno qualsiasi tra il 15 ed il 17. Sarà. Di certo, essendo il 16 lo stesso giorno in cui PCI avrebbe dato – o meno – la sua fiducia ad un governo della Repubblica per la prima volta dal 1947 se di coincidenza si tratta, è impressionante.

 

Ricordiamo i nomi delle cinque vittime. Perché erano servitori di uno Stato che, lo vedremo, è stato clamorosamente inefficiente e non ha consentito loro di fare al meglio il proprio mestiere. Perché uccisi senza che chi gli sparasse addosso, convinto di essere in guerra, sapesse nulla della loro vita, mentre loro non erano in guerra contro nessuno. Perché, infine, è stato proprio il ricordo di quei cinque corpi sul selciato di Via Fani che impegnava moralmente la Nazione a non intavolare, nei 55 giorni del rapimento, una trattativa con le Brigate Rosse, cosa che invece lo stesso Moro quasi implorò nelle sue lettere. Vittime, non eroi, e proprio in quanto vittime degne di non essere dimenticate. Non erano le prime, e non sarebbero state purtroppo le ultime.

L’appuntato Domenico Ricci, 43 anni da Staffolo nelle Marche faceva parte della scorta di Moro da 21 anni, ed era alla guida della macchina di servizio su cui il presidente DC viaggiava seduto sul sedile posteriore. Fu ucciso senza che potesse nemmeno reagire.

Il Maresciallo maggiore Oreste Leonardi, da Torino, 52 anni, era con Moro dal 1963. Era il più vicino, anche umanamente, allo statista democristiano, e – da testimonianze raccolte anche dai familiari – era quello che più temeva un attentato. Ciononostante, la pistola di ordinanza era riposta sotto il sedile, in un borsello. Prima di morire falcidiato dal fuoco dei brigatisti ebbe solo il tempo di girarsi per far chinare Aldo Moro giù.

Sull’Alfetta che seguiva la FIAT di Moro vi erano tre poliziotti:

La guardia di Pubblica Sicurezza Raffaele Iozzino, 25 anni, da Casola in provincia di Napoli fu l’unico che riuscì ad uscire dalla macchina, essendo seduto sul sedile posteriore, ed a rispondere al fuoco, con soli due colpi, però. Cadde ucciso anche lui.

La guardia Giulio Rivera, della provincia di Campobasso, non ancora 24 anni, rimase ucciso senza essere riuscito a fare alcunché.

Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, 30 anni ancora da compiere, di Fasano in provincia di Brindisi venne ritrovato ancora in vita al suo posto di guida dal quale stava invitando la macchina con la targa Corpo Diplomatico a ripartire, ma spirò poco dopo in ospedale. Quella targa, che fu utilizzata per evitare sospetti da parte della scorta di Moro, risulterà poi essere stata rubata nel 1973 al consolato venezuelano proprio da qualcuno dei brigatisti.

 

Le reticenze dei terroristi rossi circa l’esatta dinamica dei fatti e la precisa composizione del commando sono, anche se inserite in un contesto di atroce auto giustificazione, comprensibili: si sono sempre addossati, anche quando non sarebbe convenuto farlo, l’esclusiva responsabilità dell’attentato e del rapimento. Meno comprensibile è invece il dilettantismo di chi doveva organizzare la protezione di uno dei più importanti uomini di Stato di allora: che la FIAT su cui Moro viaggiava non fosse blindata era un’anomalia, ma forse giustificabile. Le auto blindate erano solo 28 all’epoca, e il criterio di assegnazione di queste, per quanto poco logico, era tale per cui perfino Andreotti, Presidente del Consiglio in carica, ne era sprovvisto. Meno comprensibile è invece la povertà di preparazione ad un eventuale conflitto a fuoco che la scorta aveva, e che portò i cinque uomini ad avere le pistole chiuse con la sicura e riposte in borselli, ed i mitra addirittura dentro il bagagliaio dell’auto. Del resto, non facevano esercitazioni di tiro costanti ed in un caso – quello del vicebrigadiere Zizzi – provenivano addirittura da incarichi amministrativi. L’azione di sorpresa da parte delle Brigate Rosse ci fu, ma la reazione della scorta non fu, né avrebbe potuto essere, vista la situazione – adeguata. E non di certo per colpa di quei poveri cinque servitori dello Stato. Era, quello italiano, uno Stato che difendeva sé stesso poco e male.

 

Miguel Gotor racconta che Andreotti quando seppe del rapimento di Moro ebbe dei conati di vomito. La fiducia al governo venne a quel punto, comunque, immediatamente concessa: ci si sentiva, per la prima volta dal 1945, in guerra. E le istituzioni non sapevano come reagire. Si arrivò all’assurdità di diramare da parte del Ministero dell’Interno l’attuazione di un ”Piano Zero” che in realtà non esisteva (era un piano di emergenza per la sola provincia di Sassari). Il contrordine fu emesso solo dopo oltre un’ora.

 

Due giorni dopo il rapimento, arriverà il primo comunicato delle BR. E’ opportuno riportarne alcuni stralci, per capire la follia di alcune tesi, ed anche per riflettere su alcuni teoremi, che ancora oggi faticano a passare di moda:

«Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana.

La sua scorta armata, composta di cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali (poveri ragazzi! Trattati come feroci marines dai brigatisti quando erano invece solo degli umili servitori di uno Stato che assegnava loro compiti per cui non li preparava a sufficienza ndr) è stata completamente annientata.

[…]

La trasformazione nell’area europea dei superati Stati-nazione di stampo liberale in Stati Imperialisti delle Multinazionali (SIM) è un processo in pieno svolgimento anche nel nostro paese. Il SIM, ristrutturandosi, si predispone a svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione degli interessi economico-strategici globali dell’imperialismo ed al tempo stesso ad essere organizzazione della controrivoluzione preventiva volta ad annichilire ogni ‘velleità’ rivoluzionaria del proletariato.

[…]

Bisogna stanare dai covi democristiani, variamente mascherati, gli agenti controrivoluzionari che nella ‘nuova’ DC rappresentano il fulcro della ristrutturazione dello SIM, braccarli ovunque, non concedere loro tregua […] Sia chiaro quindi che con la cattura di Aldo Moro, ed il processo al quale verrà sottoposto da Tribunale del Popolo, non intendiamo ‘chiudere la partita’ né tantomeno sbandierare un ‘simbolo’ […] Intendiamo mobilitare la più vasta ed unitaria iniziativa armata per l’ulteriore crescita della guerra di classe per il comunismo.»

 

Sulla base di queste astruse affermazioni, in nome di un ‘popolo’ che le Brigate Rosse non rappresentavano e che non poteva né voleva sentirsi rappresentato da loro, era stato portato l’attacco più violento alla Repubblica Italiana.

 

Avevo meno di dieci anni, li avrei compiuti a giugno, ed ho vissuto quel giorno in aula a Latina, con la mia maestra di quinta elementare moglie di un DC convinto, e cattolica convinta anche lei. Ricordo lo sgomento, e la ricerca che ci fece fare sulla “statista democristiano”. Ma a quell’età, ed in provincia, quel fatto fu solo uno dei tanti che ti riempiono la vita.

Ricordo i telegiornali, appena tornato a casa, e le discussioni in famiglia. Ricordo di aver visto Benigno Zaccagnini – segretario della DC di allora – gridare “Mo-ro! Mo-ro!” con un microfono in mano la sera a piazza del Gesù, e i discorsi del Papa dalla finestra di Piazza San Pietro, quando si offrì lui come ostaggio e quando chiese di rilasciare Moro.

Non sapevo, non potevo sapere nulla, non solo di tutto ciò che uscì poi fuori dalle indagini, dell’impreparazione di uno stato che non riusciva ad affrontare la situazione, e delle squallide “trattative” messe in piedi anche da chi non aveva titolo per farne, ma – venendo da una famiglia a forte trazione democristiana – non sapevo nulla neanche della sofferenza di Berlinguer, della fermezza del PCI, che i miei ritenevano montanellianamente padre morale dei terroristi, e della grande tensione politica che si viveva a Roma, distante 60 chilometri geograficamente, ma molto di più dal punto di vista sociale.