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Nei primi mesi del 1916, i Tedeschi erano decisi a forzare una decisione per portare a una conclusione rapida e favorevole la guerra. Identificando nei Francesi il nemico sconfitto le cui ostilità sarebbero cessate, scelsero di portare a logoramento, sia materiale che morale, la nazione transalpina.

Secondo l’Imperatore Guglielmo II, il principale nemico della Germania era la Gran Bretagna che andava sconfitta togliendole “dalle mani la miglior spada che possedeva” . Cioè l’esercito francese.

Il piano consisteva nello scegliere un obiettivo che i Francesi considerassero vitale e che fossero perciò costretti a difendere a qualsiasi costo; e consisteva nello scagliare contro tale obiettivo ondate su ondate di attacchi, in modo da attirare via via le riserve del nemico, fino a quando questi non avesse più avuto disponibilità di mezzi e materiali e avesse dovuto accettare la resa.

È opportuno sottolineare che la Germania contava 65 milioni di abitanti allo scoppio delle ostilità, rispetto ai 39 milioni di francesi. Fu una netta superiorità tedesca, quindi, benché mitigata dalla necessità di combattere su più fronti. In parole povere, i Tedeschi erano convinti che le forze del nemico si sarebbero esaurite prima delle loro.

All’epoca Verdun contava solo 3.000 abitanti e non rivestiva alcuna importanza economica. Dal punto di vista strategico era però ritenuta essenziale, perché costituiva il punto focale della difesa francese, saldando i due settori del fronte: settentrionale e meridionale. Era inoltre un saliente che si incuneava, con effetti deleteri, nelle linee tedesche.

Infine, Verdun aveva un forte valore simbolico: circondata com’era di fortezze che furono costruite sotto il Re Sole, conquistate dai Prussiani nel 1792 ma invitte nella pur vittoriosa, dal punto di vista tedesco, guerra del 1870. Verdun venne quindi scelta come punto nel quale sferrare l’attacco. La responsabilità di questo fu affidata a Erich von Falkenhayn, Capo di Stato Maggiore e Ministro della Guerra.

Il maltempo determinò un rinvio delle operazioni offensive fino al giorno 21 febbraio 1916; operazioni che tuttavia i Tedeschi avevano pianificato di avviare il 12 febbraio. Principale conseguenza di questo ritardo fu il venire meno della sorpresa tattica che l’Alto Comando germanico aveva saputo conseguire.

I fanti dell’Imperatore si trovarono così ad affrontare nemici che li aspettavano.

Cionondimeno i Tedeschi conseguirono alcuni successi. In particolare, il giorno 25 febbraio 1916 espugnarono Fort Douaumont, con un fortunoso colpo di mano. Questa posizione vide nei mesi seguenti parecchie controffensive francesi che furono coronate da successo solo nell’ottobre, quando ormai i Tedeschi avevano parzialmente sgombrato la posizione, non più ritenuta di primaria importanza.

I successi dell’Impero Tedesco furono dovuti principalmente a una concentrazione di artiglieria senza precedenti, 850 pezzi tra i quali la celeberrima “Grande Berta” e un cannone navale Krupp montato su carro ferroviario. Furono inoltre utilizzate armi nuovissime per l’epoca, come lanciafiamme e aerei.

Di contro, i Francesi furono colti relativamente di sorpresa e fecero fatica a far affluire le loro riserve verso la prima linea, a causa dell’esistenza di un’unica strada che portava nel settore.

Proprio il giorno della caduta di Fort Douaumont, si verificò un importante mutamento nei comandi francesi. Il comando del settore fu affidato a Philippe Pétain, carismatico generale molto amato dai soldati per le cui vite mostrava un rispetto all’epoca decisamente non comune.

Con Pétain i Francesi scelsero una strategia difensiva, in netto contrasto con la loro dottrina prebellica, che era basata unicamente sull’attacco. Il futuro maresciallo diramò un ordine chiaro quanto sintetico: non cedere più terreno!

Si preoccupò di risparmiare al massimo le vite dei suoi uomini;

fece costruire strade e migliorare la logistica per garantire l’afflusso dei materiali alla prima linea;

introdusse la rotazione degli uomini, che poterono beneficiare di più frequenti turni di rotazione nelle retrovie.

Le operazioni assunsero così caratteristiche che si associano comunemente alla cosiddetta “guerra di trincea“.

Marzo fu inoltre inaspettatamente freddo e ricco di precipitazioni, anche a carattere nevoso: tutti questi fattori contribuirono ad arrestare i Tedeschi. In questo periodo si distinse nelle operazioni un giovane ufficiale francese, Charles De Gaulle; ferito, verrà catturato e rimarrà prigioniero fino al termine del conflitto.

Ma una strategia di pura opposizione non poteva essere accettata a tempo indeterminato dallo Stato Maggiore Francese; esso, come si è detto, era figlio di una dottrina che conosceva una sola parola: attacco. Ad aprile Pétain venne quindi sostituito e i Francesi passarono all’offensiva.

Gli uomini tornarono a essere solo carne da cannone e vennero scagliati in ondate successive contro trincee e apprestamenti difensivi che – semplicemente – non potevano espugnare.

È opportuno ricordare che le trincee erano solo parte di sistemi di difesa composti da mitragliatrici, filo spinato, cavalli di frisia ecc., contro i quali uomini a piedi e appesantiti dall’armamento dovevano lanciarsi, attraversando allo scoperto la “terra di nessuno”: lo spazio fra le proprie trincee e quelle nemiche.

Inoltre i feriti venivano spesso rispediti in prima linea dopo aver ricevuto cure sommarie. E’ qui che si può riscontrare una buona parte dell’orrore della battaglia di Verdun – proprio per esaurimento di quel materiale umano che veniva tenuto in nessun conto. I traumatizzati erano tacciati di codardia e dichiarati abili al combattimento: tornavano così in quelle trincee dove li aspettavano solo freddo, sporcizia, gas letali e malattie, quando non un proiettile nemico.

In definitiva, le offensive dei transalpini sortirono l’unico effetto di accrescere spaventosamente il numero dei caduti di entrambe le parti.

Insoddisfatti dei risultati conseguiti, dopo un’ultima “limitata” offensiva (giugno 2016), nel corso della quale persero altri 250.000 uomini, gli Alti Comandi dell’esercito Imperiale sostituirono Falkenhayn con la coppia formata da Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff; essi scelsero a loro volta una strategia difensiva, in attesa degli attacchi nemici.

In parte la decisione fu dovuta alla contemporanea offensiva inglese, più a nord, in quella che verrà poi etichettata come battaglia della Marna, e il cui scopo principale era proprio quello di “alleggerire” la situazione degli esausti Francesi attorno a Verdun.

Anche la Marna si risolverà in una insensata carneficina, così come le ultime ridotte offensive dell’esercito francese attorno a Verdun.

La campagna di Verdun termina ufficialmente il 19 dicembre 1916: in questo giorno i contendenti si arrestano sia per l’esaurimento di uomini e mezzi, sia per la dura stretta imposta da un inverno particolarmente rigido.

Verdun influenzò pesantemente le concezioni tattiche dei due contendenti, non solo per il proseguo della Grande Guerra ma anche per gli anni successivi fino alla Seconda Guerra Mondiale. Se i Francesi scelsero di perfezionare tattiche e apprestamenti difensivi, i Tedeschi fecero esattamente l’opposto, teorizzando la guerra di movimento e l’infiltrazione nel territorio nemico in modo totalmente svincolato dalla conquista di posizioni fisse: in definitiva il blitzkrieg, la guerra lampo.

Ma più importante della teoria è senz’altro la necessità di sottolineare i patimenti di chi ebbe la sventura di combattere a Verdun: non bastano le aride cifre che parlano di 368.000 perdite tra i Francesi e 330.000 fra i Tedeschi, compresi feriti e prigionieri, a descrivere l’orrore. E forse nemmeno le definizioni di alcuni storici come Lucio Villari (“Gli uomini contavano meno dei mezzi”) o Antonio Gibelli (“Un processo industriale senza fine della morte umana”).

Forse meglio che altrove, l’inferno di Verdun è stato descritto da Erich Maria Remarque nel suo celeberrimo “Niente di nuovo sul fronte occidentale“.