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Il 27 febbraio del 1933, esattamente 89 anni fa, le fiamme avvolsero il Palazzo del Reichstag, sede del Parlamento tedesco, a Berlino. L’incendio, di origine dolosa, è ricordato ancora oggi sui i manuali di storia come una tappa cruciale nell’ascesa del Nazismo.

Quando arrivò sul posto, la polizia trovò dietro all’edificio un uomo mezzo nudo: si trattava di Marinus Van der Lubbe, un comunista olandese di 24 anni con problemi mentali. Poco dopo giunsero anche Adolf Hitler, divenuto cancelliere meno di un mese prima, e Hermann Göring, all’epoca presidente del Reichstag (carica che avrebbe ricoperto fino al 1945).

Quando gli fu mostrato Van der Lubbe, Göring affermò che i responsabili dell’incendio dovevano essere i comunisti e che per questo i capi del partito dovevano essere arrestati. Allo stesso tempo, Hitler dichiarò lo stato d’emergenza e spinse il presidente della Repubblica, l’85enne Paul von Hindenburg, a firmare il Decreto dell’incendio del Reichstag, che sospese gran parte dei diritti civili garantiti dalla Costituzione di Weimar del 1919.

Secondo la polizia, Van der Lubbe aveva ammesso d’aver appiccato l’incendio per protesta contro il potere dei nazionalsocialisti. In seguito, sottoposto a tortura, il giovane olandese aggiunse ulteriori dettagli alla confessione e fu quindi portato in giudizio insieme ai vertici del Partito Comunista tedesco. Il processo si svolse a Lipsia e terminò con la condanna a morte di Van der Lubbe, che fu decapitato nel gennaio del 1934. La dirigenza del Partito Comunista fu invece assolta, ma la sentenza fu solo l’ultimo anelito legalitario dello stato costituzionale tedesco.

La grande maggioranza degli storici concorda nel ritenere che l’incendio del Reichstag sia stato una montatura organizzata dai nazisti per mettere fuori legge l’opposizione e rafforzare le fondamenta della dittatura. In effetti, nelle settimane successive alla distruzione del Parlamento furono arrestati oltre 4mila quadri del Partito Comunista.

Alle elezioni tedesche del 5 marzo 1933, con la dirigenza in galera e senza alcun accesso ai mezzi di comunicazione, i comunisti non andarono oltre il 12%, mentre i nazisti stravinsero con il 44%. Non solo: le SA impedirono ai pochi comunisti eletti di insediarsi come deputati e la stessa sorte fu riservata anche ad alcuni socialdemocratici.

Qualche giorno dopo, il 24 marzo, il Parlamento diede il via libera a un altro provvedimento suicida, noto come Decreto dei pieni poteri, che consegnò a Hitler una maggioranza di due terzi, permettendogli di governare per decreto e di restringere ulteriormente le libertà civili. Il Partito Socialdemocratico, che aveva votato contro queste disposizioni, fu sciolto. Anche il Decreto dei pieni poteri, atto decisivo per l’instaurazione della dittatura nazista, fu giustificato con lo “stato d’emergenza” innescato dall’incendio al Reichstag.