Giro d’Italia, undicesima tappa, Firenze-Modena, 184 chilometri appenninici. È il 29 maggio 1940. Piove, fa freddo e tira vento. Una giornata buia, invernale, malinconica. Una giornata, si direbbe, da Gino Bartali. La maglia rosa è, da tre giorni, proprietà di Enrico Mollo, uno scalatore di Moncalieri. Invece il favorito, Bartali, è già fuori classifica. “Nella seconda tappa – racconta Bartali nel suo autobiografico “Tutto sbagliato, tutto da rifare” – la Torino-Genova, lungo la discesa della Scoffera, mentre eravamo tutti in fila indiana, un cane mi attraversò la strada, sotto la ruota davanti: feci un tremendo capitombolo e rimasi a terra tramortito per alcuni minuti”. Il medico gli prescrisse almeno 20 giorni di riposo, invece Gino riposò, si fa per dire, sciroppandosi il Giro.

 “Sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi… – scrisse Orio Vergani – Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, airone, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”

La Firenze-Modena minaccia quattro salite: Piastre, Oppio, Abetone e Barigazzo. Sulle Piastre attacca Ezio Cecchi. Piccolo, scalatore, toscano: lo chiamano “lo scopino di Monsummano”, perché la sua famiglia, come tante famiglie di Monsummano, fa scope di saggina. Stavolta Cecchi fa il Bartali, e fa un po’ anche la Befana, perché trasforma la bici in una scopa volante. Si arrampica, s’inerpica, si scatena. E semina anche i più volenterosi e ispirati fra gli scalatori, da Primo Volpi a Giovanni De Stefanis. L’unico a resistere, a inseguire, addirittura a rimontare, è un gregario di Bartali: Fausto Coppi. “Un ragazzo segaligno”, scrive Orio Vergani, “magro come un osso di prosciutto di montagna”.

Fausto ha ventun anni, ed è al suo primo Giro d’Italia. Cecchi scollina l’Abetone con 7 secondi di vantaggio su Coppi. A 1’55″ passano Bizzi, lo svizzero Diggelmann, Benente, la maglia rosa Mollo, Marabelli, Cottur, De Stefanis, Generati e Crippa. A 2’57″ Simonini, Canavesi e Rogora. A 3’30” Vicini e Vignoli. A 3’40″ il lussemburghese Didier. A 4 minuti Valetti, Magni e Bartali. “Fu allora”, ancora Orio Vergani, “sotto la pioggia che veniva giù mescolata alla grandine, che io vidi venire al mondo Coppi… Vedevo qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”.

È il giorno in cui Coppi, in un solo giorno, nasce e vince, si trasforma da garzone a campione, passa da numero a cognome, a nome e cognome, a superlativo. Fausto divora la discesa dell’Abetone, sale sul Barigazzo, attraversa Pavullo, si getta giù da Serramazzoni per la via Giardini, arriva a Modena con 3’45″ su Bizzi e Bartali, conquista la maglia rosa che porterà fino a Milano, e come scrive Vergani, conosce già “le gioie del primo trionfo e dei primi paragoni inevitabili con Binda e Girardengo, nomi mormorati in tono commosso dai vecchi tifosi”. E Bartali? Quando, all’inizio della salita del Monte Oppio, gli si svita la calotta destra del movimento centrale ed è costretto a fermarsi, aspettare, vedersi superare, ha perso 6 minuti: “Ultimo e solo”. Recupera, si riporta sui primi, si mette in coda al gruppetto, e quando gli avversari cominciano a scattare a turno, lui va a riprenderli. Uno per uno. Tranquilli: non succederà più.