Una volta il rock’n’roll era capace anche di mandare in classifica, con vendite spropositate (10 milioni di copie), un album con dentro due composizioni lunghe circa 25 minuti. Negli anni in cui il progressive impazzava e conquistava territori spesso restii ad elevarsi dalla forma-canzone (vedi anche l’Italia) accadevano pure queste cose. E così accadde che un inquietante motivetto di pianoforte spopolò in tutto l’orbe terracqueo per via di un altrettanto inquietante film, “L’Esorcista”; naturalmente i pochi secondi del motivetto sono quelli di “Tubular Bells”, opera a firma dell’enfant prodige Mike Oldfield.

Quando il buon Michele Campovecchio ebbe l’idea di registrare un poema strumentale, musicato da più di trenta strumenti e ottenuto mediante la sovraincisione di decine e decine di frammenti, aveva soltanto una ventina d’anni e ne aveva compiuti proprio venti da dieci giorni quando, il 25 maggio 1973, le Campane Tubolari entrarono nella Storia musicale. Oldfield era un chitarrista già talentuoso e aveva suonato con musicisti storici di quella che prese il nome di “Scena di Canterbury”; aveva mosso i primi passi importanti con Mister Kevin Ayers (storico membro dei Soft Machine, mica cotica) e, insomma, quando si mise a registrare “Tubular Bells” aveva dalla sua parte un talento mostruoso – sfruttato poi nel corso della carriera con esiti alterni e non sempre convincenti –, un furore musicale tipico degli adolescenti e, soprattutto, un’idea davvero storica per la musica rock.

“Tubular Bells” aveva già preso forma nella mente di Oldfield da un po’: aveva registrato i singoli passaggi della suite, aveva in mente la progressione dei vari movimenti; mancava soltanto qualcuno disposto a fargliela registrare come Cristo comanda. L’incontro con Richard Branson, fondatore del futuro colosso Virgin, fu fondamentale: “Tubular Bells” fu il primo album pubblicato dalla casa discografica di Branson e ancor oggi resta uno dei dischi più venduti dalla Virgin. Difficile spiegare il perché di questo successo, e ingiusto sarebbe rintracciarlo soltanto nel traino de “L’Esorcista”; “Tubular Bells” è un disco dall’impatto davvero rivoluzionario.

Per la prima volta un musicista riusciva a vendere al grande pubblico un’idea che commercialmente aveva funzionato poche volte in precedenza: utilizzare uno studio di registrazione come un vero e proprio strumento, manovrandolo per unire insieme un’ottantina di tracce separate che attingevano ai generi musicali più svariati. È lo studio di registrazione che crea il valore aggiunto dell’album, che naturalmente brilla anche per l’incredibile creatività che traspare da ogni singolo passaggio.

L’apertura è affidata al famoso tema del film di William Friedkin, che crea la tensione prima del diluvio: i 23 minuti della prima parte sono un incredibile coacervo di rock, musica classica, new-age, minimalismo, passaggi di folk pastorale e sferzate di hard-rock, passando anche per un sussultante chitarrismo alla Captain Beefheart, soltanto un po’ più erudito.

I passaggi si inseguono, si inseriscono l’uno nell’altro per mantenere sempre alto il livello di attenzione dell’ascoltatore. Già, l’ascoltatore: giustamente Piero Scaruffi ha scritto che “rispetto al rock progressivo da cui proveniva Oldfield fu anche attento ad evitare le sonorità più cervellotiche”. È proprio questo equilibrio tra la sperimentazione più folle e la fruibilità dell’opera a rendere unico questo disco.

La prima parte si conclude con un memorabile finale, nel quale su un tappeto di note ripetute all’infinito dalle chitarre (minimalismo, baby) vengono presentati dalla voce del Maestro di Cerimonie Vivian Stanshall tutti gli strumenti che ripetono un bellissimo tema, che a seconda dello strumento sembra ora solenne, ora paradisiaco, ora quasi minaccioso. Fino a quando vengono presentate le Campane Tubolari, che insieme ad un coro di voci femminili chiudono la prima parte, in bilico tra l’austerità e l’estasi.

Basterebbe questo per consegnare alla Storia l’album, ma anche la seconda parte regge bene, anche se non ha la carica dirompente della prima. Poco meno della metà del tempo trascorre con un folk apparentemente sereno, mentre il quarto d’ora finale è caratterizzato soprattutto da due passaggi quasi demenziali: una parte cantata, anzi grugnita, dallo stesso Oldfield, e il finale, affidato alla sigla di Braccio di Ferro. Il cerchio si chiude con spensieratezza, laddove invece si era aperto sull’inquietudine horror del famosissimo giro di piano. Uno scherzetto niente male da parte del signor Michele Campovecchio, che pochi mesi dopo aiuterà un suo amico a realizzare un disco straordinario. Già, perché Oldfield, manco ventunenne, non pago di aver realizzato un’opera rivoluzionaria che anticipa e codifica la new-age e sfrutta al meglio le cose più importanti del progressive, qualche mese dopo le Campane Tubolari volerà alla corte di Sua Maestà Robert Wyatt per suonare su “Rock Bottom”.

Tutto ciò a 21 anni.

https://www.youtube.com/watch?v=TXvtDm820zI