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Fu una leggenda su un chiodo assassino a originare il mito di Celestino V, al secolo Pietro del Morrone (o Angelerio), salito agli onori degli altari come san Pietro Celestino, nel 1313. Le cronache raccontavano che, il 19 maggio 1296, un sicario di papa Bonifacio VIII lo avesse ucciso nella sua cella, nel castello di Fumone, in provincia di Frosinone, trafiggendogli il cranio con un piccolo e grezzo punteruolo. Si parlò fin da subito di un assassinio politico. Le ricognizioni sulle spoglie di san Pietro Celestino, invece, eseguite nel 2013, hanno smentito qualsiasi ipotesi di omicidio.

Sulla personalità di Celestino V si sono addensate per secoli i miti e le simbologie di quelle dottrine millenariste che, tra l’XI e il XIII secolo, misero a dura prova la solidità dogmatica della Chiesa Cattolica. Uomo di preghiera e zelante eremita sui monti abruzzesi della Majella, Celestino V aveva accettato con riserva la sua elezione al soglio pontificio il 5 luglio 1294. Vedendo nella decisione dei cardinali, probabilmente, un segno della Provvidenza, che lo aveva scelto per guidare la Chiesa Cattolica, si lasciò incoronare il 29 agosto nella basilica di Santa Maria in Collemaggio, a L’Aquila.

Erano trascorsi anni difficili per il cattolicesimo. Da due anni il conclave non riusciva a eleggere il successore di Niccolò IV, morto nel 1292, e la curia romana versava in uno stato di totale anarchia. Le tensioni tra le nobili casate laziali, che si contendevano il papato, e le ingerenze dei monarchi europei ritardarono per mesi la fine dei lavori, aggravando una situazione già di per sé precaria. Fu il popolo dei fedeli ad accorgersi della pericolosa deriva spirituale e numerosi movimenti religiosi, spontanei o organizzati, chiedevano da tempo una riforma della Chiesa Cattolica. Si trattò, alle volte, di raggruppamenti ereticali (i Catari, nella Francia meridionale, o i Begardi e le Beghine, nell’Italia settentrionale) o di nuovi ordini religiosi (come i Frati Minori di san Francesco d’Assisi), che, obbedendo all’ortodossia, invocavano un rinnovamento del cattolicesimo. Quando Celestino V venne presentato alle folle giubilanti, alla vista di quell’uomo così umile e caritatevole, molti sperarono finalmente nel cambiamento. Il frate Gioacchino da Fiore aveva profetizzato l’avvento di una nuova era, l’Età dello Spirito, e la venuta di un «pastor angelicus», un uomo di Dio che avrebbe distrutto la Chiesa carnale, corrotta e mondana, per costruire una nuova comunità spirituale in attesa del Giudizio Universale. Non è sbagliato affermare che molti uomini di cultura, come Dante Alighieri, avessero creduto alle parole gioachimite e le vedessero concretizzate nell’elezione di Celestino V.

Il papa fu sicuramente un riformatore, anche se il suo agire è piuttosto ambiguo. Sembrò assecondare per gratitudine quasi del tutto le richieste di Carlo d’Angiò, re di Napoli e suo protettore. In altri casi, si mostrò autoritario nei confronti degli altri ordini religiosi, favorendo la sua congregazione eremitica, i Celestiniani. Più volte delegò la gestione della Chiesa Cattolica ai suoi consiglieri, uomini tutt’altro che integerrimi moralmente. Preferiva abbandonare le questioni secolari per isolarsi in una cella di legno, costruita ad hoc nei suoi appartamenti a Castel Nuovo, a Napoli, per pregare e per meditare. È probabile che fosse cosciente del suo cattivo operato e del fallimento dei suoi propositi riformisti. Convocò un esperto in diritto canonico, il cardinale Benedetto Caetani, il futuro papa Bonifacio VIII, per vagliare la possibilità di abdicare. Lo chiamò anche per affidargli un altro importante incarico: rimettere ordine all’interno della Chiesa dopo le sue dimissioni.

Il papa indicò così il suo successore e il 13 dicembre 1294 rese noto la sua abdicazione. Celestino V aveva così dimostrato di non essere quel pastore angelico tanto atteso, ma il mito non sembrò subire contraccolpi. Si intese la rinuncia come un gesto di libertà. Di fronte all’impossibilità di riformare la Chiesa Cattolica, il papa scelse di fuggire dal compromesso con il malaffare, pur di salvare la sua coscienza. Non si trattò di viltà, come affermò Dante Alighieri, ma di moralità, come ritenne Francesco Petrarca e, molti secoli dopo, lo scrittore Ignazio Silone. La rinuncia, alla fine, rilanciò il mito del “pastor angeliucs”, poiché i tempi, infatti, non erano ancora maturi per il suo avvento. In questi termini si spiegò il fallimento di Celestino V e si spostò in un futuro incerto l’Età dello Spirito.

L’agire politico e religioso di Bonifacio VIII, volto a ribadire l’indipendenza e la superiorità della Chiesa Cattolica nei confronti del potere temporale, fu causa di profonda inimicizia con i potentati dell’epoca. Dopo la morte del papa di Anagni, nel 1303, i suoi nemici, in primis, la monarchia francese, si impegnarono in un’opera di falsificazione storica. Rileggendo alcuni episodi chiave della biografia di Celestino V, costruirono il grande complotto che il Caetani avrebbe orchestrato per spodestare il pontefice abruzzese. Il suo piano malvagio culminò con l’assassinio del rivale a Fumone, quell’uomo pio che incarnava la Chiesa spirituale tanto disprezzata dalla avara curia romana. Così si costruì il mito del “pastor angelicus”.