A chiudere il 1967, arriva un 45 giri e un EP doppio pensato come colonna sonora del terzo film del Beatle. “Magical Mystery Tour” (un viaggio in pullman che è allegorico di ben altri “viaggi”). Tutto questo è racchiuso in un LP (il nono della serie, decimo se si include la raccolta “Oldies”) che, anche se a parere di chi scrive non raggiunge le vette di Sgt. Pepper, è tra i più belli della storia della musica pop-rock. Delle undici canzoni presenti, sette sono capolavori, e le altre quattro farebbero comunque la fortuna di parecchi cantanti e autori.

Il lato A era la colonna sonora di quello strampalato film, il lato B contiene due 45 giri del 1967 più “Hello goodbye”, uscito come 45 giri con una delle canzoni della colonna sonora.

Ad ascoltare quest’album senza inserirlo in alcun contesto, si potrebbe dire che è il migliore dei Beatles senza peccare di eresia. Non essendo però un progetto organico del quartetto, bensì la colonna sonora di uno dei loro filmetti (il più debole e dilettantesco) addizionata, per iniziativa della casa discografica d’oltreoceano, con brani di prima qualità che in quell’anno (il loro migliore!) erano preventivamente usciti come singoli, è il caso forse di soprassedere da un simile giudizio.

La storia ha consacrato la versione “americana” del disco come l’unica a restare sul mercato. L’originale doppio EP (Extended Playing, formato tipicamente britannico presto caduto in disuso) voluto dai Beatles e comprendente le prime sei canzoni, ovvero quelle effettivamente usate per il film, è da tempo cimelio per antiquariato musicale. Il valore aggiunto costituito da quattro delle restanti cinque canzoni, posticce quanto si vuole, ma di mirabolante qualità, è inestimabile e artefice della sopravvivenza di questo “long playing” spurio rispetto all’originale progetto.

Cominciamo allora dal lato B: “Hello Goodbye” è una di quelle vette che sprigiona intatta solarità, carica melodica, personalità, enfasi vocale ad ogni ascolto. Su una pianistica, discendente progressione d’accordi delle sue, Paul innesta una linea vocale degna delle sue migliori caratteristiche, cioè ben estesa nella scala tonale e semplicemente geniale nel posizionamento sulle battute (non conta solo la bellezza della melodia, ma anche i suoi intervalli di silenzio, che la danno respiro e definiscono il suo contributo ritmico: sotto questo profilo questa canzone è magistrale). Unico difetto, una “coda” leggermente posticcia, con cori vagamente hawaiani e Ringo che picchia convinto sui tom, ai quali viene concesso per l’occasione un supplemento d’eco. Da solo, McCartney farà largo uso di toni del genere, che John, secondo me giustamente, odiava,

Di “Strawberry Fields Forevercosì come di “Penny Lane”, abbiamo già parlato.

“Baby, You’re A Rich Man”, in questo splendore, fa la figura del riempitivo. Lennon fornisce la strofa, lo strimpellamento di clavioline (un antenato del sintetizzatore), nonché la voglia di mettere alla berlina, nel testo, il manager Brian Epstein, che morirà da lì a brevissimo. McCartney provvede a titolo e ritornello, per una decente ma non memorabile pagina di carriera, buona giusto come lato B del ficcante singolo subito a seguire, ed a chiudere l’album.

Con “All You Need Is Love” i Beatles toccano un’altra acme di carriera: lanciata in grande stile da una trasmissione in diretta e in mondovisione, evento al tempo proponibile giusto per Olimpiadi, Concili Ecumenici e sbarchi sulla Luna e poco altro, è dotata di semplice, poppistico, trapanante ritornello, nonché di testo in realtà buonistico ma al dunque (ritornello) immortale nella sua essenzialità, e ancora delle tipiche fanfare di ottoni che quell’anno infestavano più o meno tutte le cose dei Beatles. Geniale l’andamento greve e “dispari” delle strofe, perfetto per caricare alla grande i ritornelli, così sonori e potenti. In pratica, la prima canzone “da arena” della storia del pop e del rock, con dentro un’apertura all’assoluta facilità di canto ed alla gloria, cui di seguito si innalzeranno parimenti poche altre opere, tipo la famigerata “We Are the Champions” dei Queen od anche la “In the Name of Love” degli U2. Un inno insomma, niente di meno.

Fra le sei canzoni colonna sonora del film “Magical Mystery Tour”, è facile scovare un altro, ennesimo brano epocale. Diversa da qualsiasi altra cosa musicale fino a quel momento concepita “I Am the Walrus” è una zuppa incredibile dello stordito e disinibito Lennon in acido, messa insieme dal suo alter ego, il compìto, lucido, efficiente, equilibrato e professionale produttore/arrangiatore George Martin, dotato evidentemente, e particolarmente in questa occasione, di tonnellate di apertura mentale, disponibilità, persino coraggio nel razionalizzare in quattro minuti abbondanti gli sprazzi di genio di un capellone strafatto ma talentuoso. L’operina si dipana tra accordi in discesa ed archi in crescendo, voce distorta, inserti d’opera captati dalla radio, parole non-sense montate insieme un po’ per gioco (nei momenti di lucidità), un po’ no, e ai posteri il piacere di scavarci dentro. Non si può infine sottacere che intere fortunate carriere (Electric Light Orchestra?) hanno pescato esattamente da qui.

L’esordio dell’album, con la canzone omonima, mostra l’iniziale spinta di McCartney verso un progetto molto simile all’ancor fresco “Sgt. Pepper”. I due dischi infatti sono entrambi aperti da una canzone enfatica e squillante, a preannunciare allegri e fantomatici eventi ed un unico, entusiasmante concetto che poi si stempera e svanisce dato che i brani risultano essere disomogenei e slegati l’uno dall’altro, ciascuno con la propria storia (salvo “Strawberry…” e “Penny Lane”, entrambi a celebrare cose di Liverpool).

Meglio, molto meglio la seconda canzone, ancora del bassista. “The Fool on the Hill” è uno dei gioiellini non certo nascosti (cosa c’è di nascosto nel repertorio dei Beatles?), ma certo un poco defilati, che aiutano a non stancarsi mai nell’ascolto delle loro opere. La suggestiva e nobile idea di canto nello stile esteso, disinibito e convinto di questo ineguagliabile melodista (nella sua fase giovanile…), è per l’occasione farcita in ogni dove di bucolici flauti (uno dei quali, quello suonato dall’autore… piuttosto sullo stonato) nella solita, riuscita ricerca di affrancamento dalla situazione strumentale da complessino pop, chitarre basso e batteria.

Sia lo strumentale “Flying”, debole jam session di studio arricchita (almeno nelle intenzioni) da nastri preregistrati, che il contributo di George Harrison “Blue Jay Way”, composta e suonata all’organo, fanno parte della porzione trascurabile del lascito dei Beatles. Non così è per “Your Mother Should Know”, ottima e con l’unico difetto di essere copia, inevitabilmente minore, dell’ineguagliabile “Penny Lane”: il piano ribattuto di McCartney viaggia anche qui alla grande e crea del pop di alta qualità. Su “Flying” (registrata per la lunghezza di otto minuti, ma nell’album messa solo per poco più di due), va sprecato un po’ di tempo: è la prima firmata da tutti e quattro i componenti la band, e pur essendo classificata cone “strumentale”, tecnicamente non lo è, visto che si chiude con dei cori.

Infine, “Your Mother Should Know” è la passione di Paul per la musica del passato. Gran pezzo, che si perde nella magnificenza di tutto il resto.

La boy band è ormai a tutti gli effetti nella storia. E lo sa. Ma la tragica morte del manager Brian Epstein fu uno shock, una perdita umana e professionale incalcolabile. Divenne però anche l’ennesima sfida. Il conato di strampalata onnipotenza (soprattutto in Paul) oltrepassò gli argini. Lo vedremo con i prossimi, magnifici, lavori.