Israele ed Egitto vivevano l’ennesima crisi diplomatica; in Italia la produzione del “Il Gattopardo” affrontava un vertiginoso aumento delle spese, mentre Moro si impegnava per attuare il programma DC nelle imminenti elezioni politiche. In Inghilterra lo scandalo Profumo (un’imbarazzante storia di sesso e spionaggio tra il ministro della difesa Profumo e una modella) monopolizzava l’attenzione di pubblico e mezzi d’informazione. Quasi nessuno notò che veniva pubblicato un “Long Playing” (come venivano chiamati allora i dischi a 33 giri) da parte di un gruppo musicale composto da quattro ragazzi di Liverpool, che solo da poche settimane si stava facendo notare a livello inglese grazie al loro secondo 45 giri che aveva raggiunto la vetta delle classifiche. Il disco, come la canzone in classifica, si chiamava “Please please Me” e il complesso aveva un nome che sembrava un gioco di parole, ma che avrebbe cambiato per sempre la storia della musica: “The Beatles”.

Pubblicare un 33 giri (33 e 1/3, per la precisione, come veniva riportato sul retro della copertina) era all’epoca cosa abbastanza comune se si voleva sfruttare il traino di una canzone di successo. Si schiaffava dentro la canzone, il lato B del 45 giri e si riempiva poi il disco con una decina di cover fatte di fretta. E la Parlophone, casa discografica satellite della EMI, tramite il produttore George Martin, voleva fare esattamente la stessa cosa. I Beatles avevano pubblicato “Please Please Me” a gennaio, e bisognava sbrigarsi per sfruttare quell’improvvisa notorietà, che poteva anche non durare. È vero, fu George Martin stesso a dire ai quattro giovani del Merseyside che quella canzone sarebbe diventata numero uno ancora prima della pubblicazione, ma con i gusti del pubblico non si sa mai dove si va a parare, e poi risuonava ancora la profezia del tizio della Decca che bocciò i Beatles nella loro audizione: «le band che usano chitarre sono fuori moda».

Ma i Beatles erano già i Beatles, e George Martin era già George Martin, nonostante avessero tutti meno di trent’anni. Il prodotto commerciale divenne così qualcosa di unico e di prezioso, che segnerà l’inizio di una delle più belle avventure musicali di tutti i tempi.

Anzitutto, si decise per 14 pezzi, anziché 12; e otto di essi non erano cover, ma pezzi scritti dalla band stessa. Anzi, da due di loro, il bassista e il chitarrista ritmico. John Lennon e Paul McCartney cominciavano così a formare assieme sugli album le loro canzoni. Il brand “Lennon-McCartney” (che nei credits del retro di copertina era segnato “McCartney-Lennon”: ma sarebbe durato poco) emergeva prepotente a devastare il panorama musicale.

La rivoluzione comincia già dalla prima canzone: chi volesse ascoltare la storia dei Beatles attraverso i loro Album avrebbe il primo impatto con loro tramite la voce piena di energia di Paul che dà il ritmo: “One two, three, four!” e “I saw her standing there”, un rock energico e pieno di voglia di vivere ci conquista.

E pensare che, proprio per affrettarsi, l’intero disco fu registrato in solo quindici ore e nell’arco di un’unica giornata, l’undici di febbraio del 1963. Anche la foto sulla copertina dell’album fu fatta “al risparmio”: i quattro ragazzi si affacciano sulla balaustra di un pianerottolo che altro non era che l’edificio della Emi a Manchester squadre a Londra. Sembravano quattro adolescenti felici di aver completato la loro prima opera. Non sapevano che quella foto (e quella gemella fatta alla fine del loro sodalizio) sarebbe diventata parte della loro storia (e quindi anche della storia della musica).

Sul retro, come detto, oltre alla lista delle canzoni e dei loro autori, i nomi dei quattro in rigoroso ordine alfabetico e un’entusiastica recensione del gruppo e dell’album da parte di Tony Barrow (il loro addetto stampa: nulla di obbiettivo, ovviamente).

Il disco risente dell’inesperienza dei quattro, e anche della fretta con la quale alcune tracce sono state registrate. Alcune stonature si percepiscono (In “Anna” da parte di John Lennon” e in “Do You want to know a secret” Da parte di George Harrison, a esempio). Ma si regge benissimo in piedi da solo anche senza sapere chi sono i Beatles e quale impatto abbiamo avuto sul futuro. Ci sono tanti spunti che fanno apprezzare l’opera:

La traccia inziale, di cui abbiamo già parlato, è un classico esempio di come John e Paul lavoravano assieme: sulla base melodica di Paul, John inserisce le parole giuste (“She was just seventeen, and you know what I mean”: all’epoca, a 17 anni si potevano avere rapporti sessuali consenzienti).

In alcuni pezzi c’è l’intervento musicale di George Martin, soprattutto alle tastiere (piano, o celesta). Ma solo le uniche “intromissioni” esterne, se si esclude la Batteria nei due pezzi che sono stati il primo 45 giri dei Beatles. “Love me Do” e “PS I Love You”, infatti, videro alla batteria (non accreditato) tale Andy White, un onesto musicante, scomparso nel 2015. Il fatto è che George Martin non vedeva Ringo Starr (che pure aveva sostituito Pete Best, il loro precedente batterista, proprio a causa delle pressioni del produttore) all’altezza degli altri tre, e lo “relegò” al tamburello e alle maracas. Questi due brani, assieme al 45 giri di Please Please Me che aveva come B-Side “Ask me Why” furono trasferiti direttamente nell’album, così che i pezzi registrati in quella sessione “tour de force” dell’11 febbraio 1963 furono solo 10.

Come nei concerti, un paio di pezzi sono dedicati alla voce di George (non il massimo, in questi frangenti) che canta – e credo sia l’unico caso – una canzone scritta da Lennon e McCartney, e uno al batterista. La canzone, “Boys” era la stessa che cantava Pete Best. Ma Ringo la cantava anche nel suo vecchio gruppo. Quindi, dove stava la stranezza? Che era una canzone concepita per un gruppo tutto femminile. E che, quindi, poteva essere rinominata “Girls”. Ma si decise di non “tradurre” il genere.

Per noi Italiani c’è un pezzo che è diventato parte della storia della radio. “A taste of Honey”, brano voluto praticamente solo da Paul, fu eseguito in maniera lenta e molto poco Beatlesiana. È uno dei sei brani “cover”, ma non ebbe, in questa versione, molto successo. Due anni dopo, ne venne fatta una versione strumentale da Herp Albert con i Tijuana Brass, e fu finalmente fama e gloria. Tanto che in Italia è, da quasi quaranta anni, la sigla di una delle trasmissioni radiofoniche più seguite: “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Ma è soprattutto la traccia finale ad aver fatto capire – sin da subito – chi erano i Beatles e cosa sarebbero diventati. “Twist and shout”, dichiaratamente ispirata a “La Bamba” dai suoi autori, era un pezzo che non aveva avuto gran riscontro fino a quel momento. George Martin, per “chiudere” l’album, necessitava di un pezzo “col botto”, e questo poteva essere quello ideale. Il problema è che dopo tutte quelle ore i ragazzi erano sfiniti, e John, che doveva essere il lead vocalist, quasi senza voce.

Lennon, però, non era Lennon per caso: si tolse la maglietta e la camicia, rimanendo a torso nudo. Un ultimo sorso di latte bollente col quale fare anche dei gargarismi ed eccolo là, in studio, pronto. I tecnici si trasformarono, per quei due minuti e mezzo, in fan e gli altri tre ragazzi erano pronto a dare il massimo. L’energia di fu incredibile: una voce aggressiva, potente, rabbiosa di gioia. Una prova così incredibilmente bella che persono Paul, a fine pezzo urla uno “Yeah!” rimasto nella registrazione, è che è il commento migliore a tutto il 33 giri, adesso che si è finito l’ascolto. E dire che per sicurezza Martin avrebbe voluto un altro “take”, ma a quel punto Lennon non ne aveva veramente più, e la seconda registrazione si interruppe a metà. Ma il brano, da solo, vale una discografia intera.

Con questo album, i Beatles diventarono, da band di belle speranze che aveva indovinato una canzone, qualcosa di più: una band di successo. Non solo perché scrivevano i loro pezzi, non solo perché erano un amalgama di talenti (Ringo Starr incluso: anche Martin se ne rese conto molto presto) come difficilmente si vedono in band nate dal nulla. Ma perché la creatività di Lennon e McCartney, unita all’energia che la gavetta fatta tra Liverpool e Amburgo gli avevano regalato avevano creato qualcosa di nuovo, che grazie al rock stava invadendo come uno tsunami tutto il mondo musicale, del costume, della società degli anni ’60. Che furono anche – io dico soprattutto – i Beatles. Giovani, gioiosi, arrabbiati e con la voglia di cambiare tutto dalle fondamenta.

Una luce potente, un fuoco salvifico, aveva iniziato a brillare. Come tutti le luci forti, sarebbe durata poco. Ma sta ancora illuminando tutti noi.