Purtroppo, l’opera non è riuscitissima. I concetti sviluppati sono pochi, nessuno dei quali rivoluziona il nostro concetto sull’eroe virgiliano o sull’autore, e presentati anche in maniera pesante. Non pedante, questo no: la Marcolongo ha il pregio di discorrere con il lettore. Fino a mettere la prima persona in molte affermazioni. Tattica pericolosa, perché se è vero che rende non “definitiva” la sua opinione, non potendo il lettore ribattere in diretta rischia di pontificare.
Detto questo, la parte più interessante è dove il “pio” Enea esprime la sua “pietas”, che non è la pietà, ma la sua resilienza al fato. Sa quale è il suo destino, e non può far nulla, né vuole, per impedirlo.
Le restanti analisi (c’è anche un accenno di femminismo quando parla di Didone) non aggiungono nulla a ciò che già si conosceva, se non – forse – il fatto che arrivato Enea in Italia egli si senta ormai libero dal fato, e ridiventa eroe quasi omerico, uccidendo Turno mentre questi gli chiede “pietà”.
Stessa cosa si può dire per il poema: dal fatto che fosse “su commissione”, alla delusione di Virgilio per la “nuova era” Augustea, al fatto che sia incompiuto.
Insomma, “La Lezione di Enea” è sempre la stessa. Andrea Marcolongo l’ha ribadita.