Non c’è periodo più felice, nell’esistenza di un uomo, di quello in cui si comincia a realizzare il progetto della propria vita. Tutti quelli che fino a quel momento sono solo sogni cominciano a prendere forma, e si ha la sensazione di essere riusciti a modellare il proprio futuro, attendendone, con appagata attesa, la realizzazione. È il momento migliore per sentore dentro di sé quei momenti “perfetti”, dove ogni cosa sembra andare esattamente dove dovrebbe essere. Momenti rarissimi, ma che valgono molto spesso una vita intera.

Questa sensazione, di quelle che capitano pochissime volte nella vita, il protagonista della nostra storia l’ha provata. Mentre andava al lavoro, al suo nuovo lavoro. Il sole stava sorgendo, dopo che un’alba magnifica ne aveva annunciato l’avvento in una fredda mattina invernale; la radio trasmetteva – per una di quelle coincidenze misteriose che ogni tanto capitano – “Here Comes the Sun”, e l’aria era tersa, evento che nella città del nostro protagonista non è mai banale.

 

Cosa c’è di meglio, pensava lui: un lavoro che dava soddisfazioni professionali ed economiche, un matrimonio nella piena fase della sua giovinezza, un figlio in arrivo. Era tutto perfetto. Il nostro protagonista era un giovane adulto, e si stava godendo, in quei minuti di viaggio, tutto ciò che era riuscito a realizzare fino ad allora.

Pensava che non fossero solo paesaggi belli esteticamente, o colonne sonore in perfetto abbinamento come quelle a dare quella sensazione di pienezza alla vita. Banalmente, andare in un negozio di lampadari per scegliere ciò che più ti serve per la nuova casa assieme a sua moglie che porta dentro di sé una nuova vita, è una felicità da godere appieno, Anche solo pensarci dopo averne visto da fuori uno, di quei negozi.

 

Era esattamente quello che successe qualche giorno dopo quella stupenda mattina. Un sabato di marzo, a week end appena iniziato, il protagonista della nostra storia percorse, stavolta insieme alla sua compagna, quell’identico tratto di strada dove aveva provato quell’attimo di felicità, per fermarsi proprio in quel negozio che aveva intravisto. Era uno di quei grandi capannoni espositivi periferici, dove tutto sembra studiato per evitare qualsiasi sentimento: pletore di lampadari, moltitudini di abat-jour, fiumane di plafoniere, nugoli di punti luce messi in esposizione in un ambiente ovattato, e così decontestualizzati dalla realtà dove poi verranno inseriti da far venire il dubbio che quelle visite siano completamente inutili, e si ha la sensazione di essere un pesce capitato nella rete del negoziante. Eppure, il nostro protagonista era – anzi erano, lui e sua moglie – felici.

Quand’ecco, una telefonata. Uno squillo di sabato a quell’ora poteva venire solo dai suoi genitori, e così era. “Ti devo dare una brutta notizia”, esordì la madre. Lui rispose qualcosa che in seguito non avrebbe mai più ricordato, mi ha detto. Ricorda solo cosa pensò: “Nonno o nonna?”. Era il nonno, che a quasi 94 anni cessava di vivere, come scoprì in seguito, in una delle più tranquille maniere possibili.

Lo aveva visto esattamente una settimana prima. Era ansioso, assieme a sua moglie, di comunicare il sesso ed il nome della creatura che aspettavano, e ricordò, appena seppe la notizia della morte, la soddisfazione che la stanca voce del nonno ebbe nel pronunciare il nome, quasi che assaporasse l’esistenza di quel bisnipote (il primo) con la gioia e serenità di chi ha ormai poco da chiedere al futuro, e per questo accoglie qualsiasi novità felice con la gratitudine di chi ha un regalo inaspettato. Gli accarezzò la mano sinistra, dove aveva la fede di un matrimonio accaduto 65 anni prima e che ancora durava, e il nostro protagonista giura di non aver mai accarezzato più intensamente una persona. È una delle ultime volte che lo posso fare, pensava. Non sapeva sarebbe stata l’ultima: infatti non lo avrebbe più rivisto vivo.

 

Si accarezza una persona per tanti motivi: per passione, per pulsione erotica, per consolare e, il nostro amico lo avrebbe scoperto dopo, per quell’amore genitoriale che da solo vale l’intera vita, quasi a confermare che il solo scopo di essere al mondo sia quello di perpetrare, in un ciclo che sembra non finire mai, l’esistenza. Ma l’intensità di quella carezza fu tale da essere ancora oggi l’unica carezza fatta che lui ricorda con assoluta chiarezza: era la carezza al suo passato, e a un presente che sapeva sarebbe durato ancora per poco. Era la carezza a una persona che è stata parte di sé stesso tanto, più di chiunque, fino a quel momento della sua vita. Una carezza a una persona che portava il suo stesso nome e cognome, e che sapeva sarebbe vissuto ancora per poco; forse – come poi è accaduto – pochissimo.

Il nostro protagonista riuscì a pensare a tutte queste cose nel breve attimo tra l’apprendere la notizia al telefono e la comunicazione alla moglie, cercando di riprendere in mano la logica della giornata, stravolta dall’evento.

 

È una cosa comune chiamarsi esattamente come il proprio nonno, ma quello che spesso non si riesce ad esprimere è la sensazione, costante, per chi ha questo destino, di avere perennemente davanti a sé uno specchio che riflette la stessa persona, solo con una sessantina di anni in più di vita. Vedersi continuamente, e confrontarsi, con un te stesso maturo da bambino, un te stesso anziano da adolescente, ed infine un te stesso vecchio da adulto. Un confronto continuo, insomma, ma soprattutto la sensazione di essere sempre “quello piccolo” che, il nostro protagonista se ne sarebbe poi reso conto, lo continuava ad accompagnare lungo tutta la sua vita fino ad allora. Quasi che il mondo “dei grandi”, fin quando quella figura era presente nella sua vita, fosse altro da sé. Anche adesso che era sposato, e in attesa di un figlio. E non perché servisse ad evitare responsabilità o a rimanere eterni adolescenti (noi maschi siamo bravissimi in questo senza che nessuno ce lo insegni: è quasi un imprinting, e lui non faceva eccezione alla regola) ma per la sensazione di protezione che la presenza di due generazioni prima di noi danno.

I genitori sono tutto nella vita: sono protezione, ma anche sprone e freno al tempo stesso. I vincoli che papà e mamma mettono alla vita – in maniera sacrosanta, sia detto chiaramente – i nonni si sentono in dovere di allentarli molto. Il nostro amico vede adesso suo padre fare il nonno con i suoi figli, e questo gli ha chiarito ancora di più quanto sia grande la differenza tra i due ruoli, e non solo quantitativamente.

Il “nonno” per lui era tutto questo e anche di più: erano le storie che gli raccontava a letto, erano le spiegazioni che faceva delle sue preghiere, ingenue e bellissime, che recitava prima di addormentarsi, erano le passeggiate al parco alla ricerca di pinoli, e soprattutto era quella casa dove i nonni abitavano, e dove la sua infanzia e adolescenza hanno giocato, al riparo da tutto e da tutti. Quella casa meravigliosa che i suoi occhi di bambino vedevano con la gioia di chi sa che tutti i suoi giochi sono li, e che negli ultimi tempi era diventata “vecchia”. Non riusciva, nei suoi pensieri, a trovare un termine che potesse meglio esprimere il senso di lenta decadenza che quelle stanze davano. Stanze sempre più vuote: un salone usato credo due volte dai suoi nonni in vita, la “sala buona” mai vissuta realmente in casa, e perciò triste; la stanza dove dormiva occasionalmente diventata il salottino dove il nonno, ormai completamente sordo, sentiva la televisione con le cuffie a tutto volume, il bagno dove la storica vasca fu trasformata in doccia per evitare incidenti domestici a quell’età pericolosissimi, la loro stanza da letto dove – sempre per la loro sicurezza – parte del letto matrimoniale fu segato: quegli spuntoni agli angoli erano pericolosissimi.

 

Quel giorno, dopo quella telefonata, lui e la sua giovane moglie si misero subito in viaggio. Quando arrivarono a casa dei nonni trovarono la nonna in lacrime, e la moglie fece una cosa dolcissima e bellissima: abbracciò quella piccolissima vecchia e le fece accarezzare il pancione. Fu allora che la nonna si sciolse in un sorriso, forse veramente l’ultimo sorriso della sua vita, anche se poi sopravvisse – purtroppo in senso letterale, non metaforico – altri cinque anni.

La nonna invitò poi il nostro amico, che era sempre stato “Piccolo” per lei (“nini”, lo chiamava), ad andare a vedere il cadavere. Era stato già ricomposto e vestito, ed era sdraiato su quel letto che lo aveva visto, da piccolo, abbracciare il nonno tante volte. Era il primo essere umano morto che vedeva da così vicino.

 

Il nostro protagonista mi ha poi raccontato che ricorda poco altro di quel giorno: il tumulto della logistica del funerale, le visite di parenti ed amici. Ma ricorda benissimo la mattina dopo. Quando – circa un’ora prima del funerale – arrivarono per chiudere la cassa. Un procedimento lungo ed impietoso, che fu svolto con quella cortesia formale dalle persone preposte che evidenziava in maniera netta la differenza tra il dolore che tutti loro provavano e la professionalità di chi ricordava a tutti, inconsapevolmente, che la vita stava proseguendo proprio grazie al loro lavoro. Fu quello il funerale di suo nonno, per lui. Non la messa, non il trasporto del feretro al cimitero, non altro. E fu lì che, finalmente, le lacrime sgorgarono copiose ad esternare il dolore. Era diventato, il nostro protagonista, “grande”.

Quel trapasso fu determinante: così determinante che non provò mai più quella stessa sensazione di lutto, neanche quando la stessa cosa successe alla nonna, quello che lo chiamava “nini”, cinque anni dopo (e alla quale lo legava un affetto totale fin da piccolo). La mutazione era avvenuta cinque anni prima, ormai. Ci fu dispiacere, certo, e tanto. Fu un dispiacere che a dire la verità, però, durò quanto quel lustro. E non solo per la sua condizione fisica e mentale, ma per vedere un ordine familiare che ormai non esisteva più, e di cui la nonna rappresentava solo una parte. Come se avesse avuto per le mani, in quei cinque anni, un film la cui pellicola era stata tagliata verticalmente a metà.

 

Il nostro protagonista ci ha messo venti anni a raccontarmi tutto questo: forse perché solo adesso, essendo arrivato in una parte della vita dove il passato necessita di essere classificato con ordine, si rende conto di come alcune esperienze siano state una svolta così importante nella sua vita. E adesso che quel pancione di sua moglie è diventato uno studente universitario, con una vita che sta sbocciando anche fuori dalla famiglia e con una sorella che ha finalmente fatto capire a mio padre la differenza di pensiero tra un uomo e una donna, e che dopo essere stato mio genitore diventa adesso padre dei suoi genitori, dei miei nonni, sta tirando, mio padre, il mio meraviglioso padre, un bilancio della sua vita classificando vincite e sconfitte trattandole finalmente, come dice Kipling, alla stessa maniera. È solo adesso che papà mi ha potuto raccontare tutto questo; quando determinate esperienze riemergono in tutta la loro importanza emotiva, e capisco che alla fine è stato giusto così: l’ultimo insegnamento di un bisnonno che ho mancato di soli quaranta giorni.